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Creatura eccentrica e stravagante, Bradford Cox è stato capace, con i suoi Deerhunter, di dare nuova linfa all’alternative rock dell’ultimo decennio mischiando sapientemente generi e stili, fino a creare un sound unico e immediatamente riconoscibile.
Difficile trovare nel panorama musicale contemporaneo personaggi dalla vena creativa tanto brillante quanto prolifica, come testimoniano le vette qualitative toccate anche con il suo side project Atlas Sound.
La sua personalità imprevedibile ha reso ogni esibizione live della band di Atlanta un evento atteso ma anche temuto dai fan: non si sa mai cosa possa saltare in testa al bizzarro frontman (rimarrà agli annali l’esecuzione lunga 60 minuti della cover di “My Sharona”).
Per fortuna il Bradford Cox che si presenta al pubblico del Magnolia di Milano è in serata decisamente ispirata e regala ai presenti due ore da ricordare.
L’avvio in solitaria nelle vesti di Atlas Sound vede l’artista tirare fuori la sua anima più sperimentale con un filotto di vaporosi brani inediti, gonfi di synth, effetti vocali e distorsioni. I presenti assistono in silenzio al suggestivo one-man show, scaldando i motori per il main event della serata, che non tradisce le aspettative di tutti quelli che attendevano con ansia il tour italiano della band di Atlanta.
I Deerhunter, infatti, non sbagliano un colpo, partendo proprio dall’iniziale “Desire Lines”, sparata fuori a freddo ma eseguita magistralmente, nonostante la strumentazione copra a tratti la flebile voce di Lockett Pundt. Da lì in poi è un susseguirsi di pezzi da dieci e lode, con la band di Atlanta che lascia spesso e volentieri spazio all’improvvisazione, dilatando di volta in volta intro e finali.
I brani da dell’ultimo “Fading Frontier” suonano decisamente più rock, con chitarre e sezione ritmica in stato di grazia.“ Braker” è perfetta nella sua confezione melodica, “Living My Life” sembra un’altra canzone, quasi uptempo e scevra del refrain, mentre “All The Same” è già un piccolo classico. Dal loro capolavoro “Halycon Dygest” i quattro estraggono anche “Revival” e “Don’t Cry”, quest’ultima in versione heavy, come spesso capita dal vivo. Il risultato è una sala che si spella le mani, prima di venire colpita e affondata dai quasi 20 minuti di “Nothing Ever Happened”, con la coda finale che sfocia in “Horses” di Patti Smith, prima di tornare al groove di uno dei loro pezzi più amati.
L’encore vede l’esecuzione della storica “Agoraphobia” (brividi durante l’intro) e della sincopata “Fluorescent Grey”, tenuta in caldo per il gran finale. Nel mezzo c’è ancora spazio per il vicefrontman Lockett Pundt, che canta l’atmosferica “Ad Astra”, uno dei brani più convincenti dell’ultimo album.
Peccato non aver ascoltato neanche un estratto da “Monomania”, che non ha ancora trovato spazio nelle scalette dell’attuale tour. Che la band stia in qualche modo rinnegando il suo lavoro meno coerente e, forse, più accessibile? Non è dato saperlo, ma non è poi così grave, vista la qualità dell’esibizione. Una delle migliori di questo 2015.
Lunga vita ai Deerhunter, quindi, sperando che Cox continui a deliziarci per molti anni con la sua lucida follia.
(Stefano Solaro)