Share This Article
Gli Ought sono una delle nostre scommesse più recenti. Ne parlavamo nella primavera del 2014, qualche settimana prima dell’uscita di “More Than Any Other Day”, LP d’esordio che li ha resi una delle band indie rock contemporanee più originali e convincenti (tanto da finire nella nostra top 10 dei migliori album del 2014) e non avevamo visto male. Dal vivo il quartetto di Montreal ha dimostrato di riuscire addirittura a superare l’altissima qualità delle produzioni in studio. Abbiamo avuto la fortuna di vederli all’opera in piccoli show italiani, ma anche al Primavera Sound di Barcelona, al Beaches Brew di Marina di Ravenna e al Way Out West di Göteborg. L’impressione è quella di una band incredibilmente matura e pronta al salto. “Sun Coming Down”, uscito il 18 settembre sempre per Constellation Records, ha confermato le previsioni: post-punk, di scuola Television, reminiscenze intellettuali da Sonic Youth e arrangiamenti impeccabili. Degli Ought si sentirà parlare per un po’. Abbiamo fatto il punto della situazione con il vocalist e chitarrista Tim Darcy.
“Sun Coming Down” è arrivato, per molti più presto del previsto, quando ancora si metabolizzava il vostro fulminante LP d’esordio. Come mai?
Siamo stati in tour per la maggior parte dei giorni, nel 2014, dopo l’uscita di “More Than Any Other Day”. C’era molta energia creativa repressa, anche dopo l’uscita del disco, così eravamo tutti molto stimolati nel metterci a scrivere musica nuova già dallo scorso inverno.
Pur avendo perso quell’effetto-sorpresa da band al debutto, credo che il nuovo album sia un grosso passo avanti. Suonate già da veterani e il suono e la struttura dei brani appaiono già molto più compositi e consapevoli. Quali credete siano le principali differenze tra i due album?
Questo secondo album anche per me suona decisamente più stagionato e navigato. Abbiamo suonato davvero tantissimi show, mentre cercavamo di trovare il tempo di metterci insieme a scrivere e registrare qualcosa. Fa ridere che sia venuto più live come approccio quando il disco è nato molto più in studio di quel che si potrebbe pensare. Eppure, sono d’accordo con te, “Sun Coming Down” suona molto più pieno e composito come sound. C’è stata una maggiore consapevolezza nei nostri mezzi, nel cogliere in corso d’opera cosa stavamo suonando.
Avete lavorato al fianco di Radwan Ghazi Moumneh ai più noto come Jerusalem In My Heart (autore di un album con un’altra band di Montreal, i Suuns). Com’è lavorare con lui? I suoi album sono molto intensi e interessanti, peraltro.
– E’ davvero un grande. Una figura meravigliosa in studio e fuori dallo studio. Il suo progetto è uscito per la Constellation, come nel nostro caso, ed è veramente incredibile.
Come dicevamo, avete trascorso buona parte dell’anno della vostra esplosione, il 2014, in giro per il mondo. Siete due americani e due canadesi nati e cresciuti musicalmente a Montreal negli anni degli scioperi universitari nel cuore degli ambienti radicali DIY della città. E’ una città che continua a ispirarvi e darvi energie anche ora che ci trascorrete per forza di cose meno tempo?
Questo è molto difficile da dire, credo che il nuovo album, a differenza del suo predecessore, abbia preso poco dalla nostra vita a Montreal. Esistono dei punti di contatto pochi, e Montreal è viva nel nostro immaginario in quei pochi passaggi a livello di temi e testi.
Riuscireste a vivere in un’altra città?
Ognuno darebbe una risposta diversa a questa domanda, diciamo che al momento amiamo Montreal e ci piace vivere a Montreal.
Non avete mai nascosto una forte connotazione politica nel vostro background e nei vostri testi. Si può dire lo stesso rispetto al vostro seguito, dopo aver girato in Europa oltre che in Nord America?
Possiamo dire che il nostro pubblico, come abbiamo appurato, è molto eterogenea
Parliamo appunto del tour, siete passati anche dall’Italia. Qualche impressione?
Possiamo dire senza dubbio che quella del Beaches Brew (il festival gratuito sulla spiaggia dell’Hana-Bi di Marina di Ravenna) è stata memorabile, non solo perché è stato uno dei nostri primi live italiani. Spesso i live outdoor sono imprevedibili e lasciati al caso, ma in questo, dove siamo stati coinvolti dalla nostra agenzia europea Belmont (che co-organizza l’evento con Bronson Produzioni), trovo che l’atmosfera sia unica nel mondo, come energia, pubblico e vibrazioni. Ricordo anche con molto piacere la nostra intervista con Jason Groth dei Magnolia Electric Co., davvero gradevole e divertente. Un’esperienza fantastica.
Qual è quindi la dimensione ideale per assistere a un concerto degli Ought ora che state macinando esperienza nelle situazioni più disparate?
Ci sono diversi fattori che trasformano uno show in un concerto magico o da ricordare. A volte il palco è troppo piccolo e suoniamo uno sull’altro, altre volte il palco è comodo ma non funziona nulla ma l’atmosfera è comunque figa. Altre volte il palco è troppo grande da farci sentire alienati e distanzi ed è il pubblico a farci superare l’alienazione. Direi che, a prescindere, dalle dimensioni del palco, per quello che facciamo noi, è il pubblico, ancora oggi, a rendere uno show più speciale degli altri.
Poi succede che a volte ti sembra di aver fatto una figuraccia e, parlando con i presenti, ti rendi conto che i problemi erano tutti nella tua testa, perché in realtà è filato tutto liscio. A oggi siamo rimasti sempre molto soddisfatti e ciò ci rende molto felici e fiduciosi per il futuro.
Qualche novità musicale che vi sentite di consigliarci?
In ordine spars… Anika, Cate Le Bon, Hakobune, White Fence, Angel Olsen, Majical Cloudz. C’è davvero della roba ottima venuta fuori negli ultimi tempi.