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A volte si esce di casa un lunedì sera. E si deve prendere l’autostrada. E fare chilometri. E spendere soldi. E magari si è pure soli.
Perché lo fai? Chiede una vocina.
Grazie a Kamasi Washington e alla sua band, per una volta la risposta è pronta: GIOIA. Quella della musica, almeno.
Locomotiv, tutto esaurito.
Jazzofili, hipster, musicisti, non-musicisti, rock-forzati, addetti ai lavori, sfigati che hanno preso l’autostrada: pubblico trasversale, una rarità ormai.
Tutti rapiti ed eccitati. Da subito.
Quando è ancora vuoto, il palco fatica a contenere la strumentazione: il debordare sarà una delle caratteristiche della serata. Ci sono due batterie (Tony Austin e Ronald Bruner). E poi i fenomenali Brandon Coleman (tastiere) e Miles Mosley (contrabbasso). Non sono da meno Ryan Porter (trombone) e, alla voce, la sinuosa Patrice Queen.
E infine lui: il massiccio Kamasi con la maestosa chioma raccolta in un cappello rasta dai colori di Mama Africa.
Sono in Italia per la prima volta: molto bene.
E si parte con un’ora e mezza (forse di più) di un tour forsennato ed enciclopedico: free jazz, standard, tanto funk, crossover, soul… in una parola “Epic” come il triplo album che ha fatto di Kamasi Washington una star.
I pezzi durano almeno sette-otto minuti: si scende e si sale, dal silenzio alla saturazione, dal romanticismo al ballo con il sax del leader che in certi momenti sembra arrampicarsi oltre e oltre e oltre.
Kamasi in certi momenti si defila e a ogni musicista è concesso lo spazio del virtuosismo (anche ai batteristi…). Ma tutto questa sera funziona.
Come se non ci fosse abbastanza densità, sul palco si materializza il senso tutto afroamericano di banda, comunità, clan che ha una storia alle spalle, innumerevoli ramificazioni e un disegno in testa.
Kamasi parla, racconta e si carica il locale sulle spalle.
A circa metà fa la sua comparsa papà Washington che, prima al flauto traverso poi al sax, accompagnerà gli altri posseduti fino alla fine.
Seguo il concerto a fianco dell’amico GS, una militanza a 360° folgorata a 14 anni da un concerto dell’Art Ensemble of Chicago nella Taranto del 1975.
“Allora, GS?”
“Grandi, ma dopo un album così pieno, consapevole e definitivo cosa rimane da fare?”.
D’accordo GS la sai lunga: questo è il rischio. Ma intanto rendiamo grazie…
(kostedde)