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“Youth of America
Is living in the jungle
Fighting for survival with the wrong place to go”
(Wipers – Youth of America)
Nel novembre 1981 esce “Youth of America”, secondo disco dei Wipers, mente e corpo di Greg Sage: chitarrista, songwriter americano che cerca di esprimere la propria frustrazione nella musica, vera e propria forza espressiva di una gioventù arrabbiata. Sage, musicista libero da scene ed etichette (se non quella di “punk” che gli viene data ma in cui non si riconosce), è di Portland (Oregon) e vive una realtà lontana dai grandi centri di aggregazione culturale underground. E di fatto i primi tre album del gruppo – “Is this real?”(1980), “Youth of America”(1981), “Over the edge”(1983) – ai tempi dell’uscita non ricevono la giusta attenzione che avrebbero meritato, solo in seguito diventano fonti fondamentali di ispirazione per molti musicisti della scena indipendente americana. Qualche nome: Melvins, Mission of Burma, Sonic Youth, Nirvana.
Ciò che più conta nella scrittura di Sage, però, è l’approccio viscerale e profondamente personale: uno spirito fortemente indipendente che si fa e produce i dischi da solo (fin da ragazzino), conferendo alla struttura canzone ruvidità ed al contempo potenza narrativa. La chitarra è rabbiosa, tesa e i riff sono penetranti, travolgenti.
L’idea originale è quella di pubblicare un album ogni nove mesi, come se fossero bambini: quindici dischi in dieci anni. Naturalmente il progetto non si realizza, anche se i Wipers, nella prima metà degli anni ottanta, sono molto prolifici, almeno fino al 1989, anno dello stop, non definitivo: tra il 1993 e il 1999 il gruppo si riforma e pubblica altri tre dischi, “Silver Sail”, “The Herd” e “The Power in one”.
“Youth of America”, anche se non è il primo album della band, segna un po’ l’inizio della storia: tenacia e passione per un certo suono e per una determinata resa musicale. Sage infatti, a differenza di quanto avvenuto per il precedente “Is this real?”, ha pieno controllo di tutto il processo di registrazione in studio. Vengono fuori sei brani per una durata complessiva che si aggira intorno ai trenta minuti, di cui ben dieci sono occupati dalla title track, un pezzo dilatato ma di una malinconia feroce: ritmi kraut-cosmici si scontrano con schegge di punk, che è sia “proto” che “post” perché parte da certe premesse garage ed arriva ad incarnare lo spirito alienato della primissima wave inglese alla Magazine. Un inno per pochi (giovani) all’epoca ma che ha saputo poi conquistare le generazioni successive.
(Monica Mazzoli)