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Il mio 2015 musicale è stato un anno statico ma di grandi soddisfazioni. Molti dei dischi finiti nella classifica dei migliori album sono quelli che aspettavo con più attesa, e che non mi hanno deluso. Oltre a questi, c’è anche qualche sorpresa, qualcosa che non avrei pensato di ascoltare ripetutamente e che invece ha allargato i miei orizzonti: il mio 2016 musicale ne beneficerà molto.
TOP 10 DISCHI
1. Sufjan Stevens, “Carrie & Lowell“
Per me il disco dell’anno è quello di Sufjan Stevens. E ho realizzato di averlo capito del tutto soltanto dopo averlo sentito suonare dal vivo. Più che un disco sulla morte, come dice di essere, “Carrie & Lowell” è infatti un disco sulla vita. Un inno alla vita, su quello che avevamo, quello che abbiamo ora, quello che un giorno non avremo più. Mi ha insegnato molto.
2. Beach House, “Depression Cherry“
Lo dico subito: non è il loro migliore, “Bloom” secondo me rimane il loro lavoro perfetto. “Depression Cherry” però è servito a farmi capire ancora più di prima cosa siano i Beach House oggi, per me e per moltri altri: uno di quei gruppi che segnano una generazione. L’attesa, l’ascolto, il piacere: i Beach House quest’anno sono stati soprattutto questo, per me e per chi li ama. E le atmosfere sognanti e spaziali di “Depression Cherry” sono il loro sigillo sul mio 2015 e su quello di molti altri. Grazie.
3. Godspeed You! Black Emperor, “Asunder, Sweet And Other Distress“
Anche se forse abbiamo ascoltato qualcosa di meglio dei Godspeed You! Black Emperor, questo “Asunder, Sweet And Other Distress” ha tutto quello che serve per ribadire la potenza della band. Come ai fuoriclasse, gli bastano poche cose per affermarsi: l’orientalismo di “Peasantry or Light! Inside Of Light”, l’ambient marziano di “Lamb’s breath” e l’apocalisse in “Piss Crowns Are Trebled”. Un disco che periodicamente sono tornato ad ascoltare. Magnetico.
4. Kurt Vile, “b’lieve I’m going down“
Credo che questo album di Kurt Vile sia il suo lavoro più libero. Gli va di fare un pezzone per la radio? Ecco “Pretty Pimpin”. Gli va di fare una delle sue solite cazzeggiate infinite con la chitarra? Ecco “All In A Daze Work”. Gli va di mettersi al piano? Ecco “Life Like This”. Gli va di fare uno strumentale? Ecco “Bad Omens”. Gli va di fare un capolavoro? Ecco “Wheelhouse”. Non è un album coeso, ma con “b’lieve I’m going down” Kurt Vile ha fatto un passo ulteriore verso l’esplorazione del suo peculiarissimo stile. Come le altre volte, più delle altre volte. Non posso che rendergli grazie.
5. Young Fathers, “White Men Are Black Men Too“
“We Are All Migrants” è il nome del tour che gli Young Fathers hanno portato avanti per presentare questo loro secondo album, “White Men Are Black Men Too”. Niente di più appropriato: ancora più che il loro esordio soltanto un anno fa, questo album mi ha colpito per l’energia vulcanica del trio multietnico di Edimburgo, che abbatte i confini dei generi musicali, eruttando un magma potente composto da hip hop, rock, elettronica e tribalismi. Come dicono loro stessi, sono “migrants”, e secondo me arriveranno lontano.
6. Beach House, “Thank Your Lucky Stars“
E chi se lo aspettava? Grazie. Di nuovo. Thank You Beach House.
7. Deerhunter, “Fading Frontiers“
Dopo parecchi anni di album che non erano riusciti a convincermi del tutto è arrivato “Fading Frontiers”. Ed è arrivato per restare. Non sono loro ad aver fatto un album migliore degli altri – fanno ottimi dischi da parecchio tempo ormai – sono io che li ho ritrovati. Merito di un’attitudine pop che definirei quasi “matura”, o comunque che trasmette più serenità che nei lavori precedenti. Insomma, me lo dico da solo: “bentornato, scemo”.
8. Viet Cong, “Viet Cong”
Bastano trentacinque minuti a questo album uscito a gennaio per farsi ricordare dopo dodici mesi come una delle migliori release dell’anno. Mezzora e poco più di post-punk spigoloso e ammaliante, che spazia al noise, all’industrial, al kraut. Sette brani che è impossibile non amare già al primo ascolto. Un finale maestoso. Una bomba.
9. Car Seat Headrest, “Teens Of Style“
Forse la più bella sorpresa dell’anno è questo album del nerd ventidueenne Will Toledo, che ha deciso di chiamarsi Car Seat Headrest perchè è proprio nella macchina dei genitori che ha composto la maggior parte delle sue canzoni. Indie rock vecchio stile, un po’ garage, un po’ punk e un po’ lo-fi, con una “pacca” e “tiro” fuori dal comune, soprattutto alla sua età: dopo essersi prodotto in casa qualcosa come undici dischi, ecco uscire il suo primo disco su etichetta (la Matador, mica robetta). Il titolo dice già molto: “Teens Of Style”. Un esordio-non esordio a dir poco luminoso.
10. Tame Impala, “Currents“
Entra di un soffio in classifica l’ultimo album di Kevin Parker e soci. “Currents” ha il vanto di avere al suo interno cinque momenti incredibili: “Let It Happen”, “Yes I’m Changing”, “Eventually”, “The Less I Know The Better” e “Cause I’m A Man”, tutti composti di una colla pop zuccherata e colorata. Ma il resto dell’album, che sono ben altre otto tracce, non si fa notare, e alla lunga finisce per appesantirlo. Fosse durato meno, e con meno riempitivi, staremmo parlando un altro discone. Per la band australiana è comunque un lavoro importante, che potrebbe rivelare del tutto il suo valore quando ascolteremo i prossimi dischi.
5 DISCHI FUORI DI POCO IN ORDINE SPARSO
Shilpa Ray, “Last Year’s Savage“ – Se non vi fidate del sottoscritto, fidatevi almeno di Nick Cave che parlando di Shilpa Ray ha detto: “una delle cose più fenomenali che io abbia visto da molto tempo in qua. Diventerà enorme”. Suono blues, attitudine punk e garage, aria scanzonata, atmosfere noir, melodie erotiche e decandenti, esaltate e desolanti. “Last Year’s Savage” è un disco incredibile.
Courtney Barnett, “Sometimes I Sit And Think, and Sometimes I Just Sit” – Semplicemente uno dei dischi più genuini dell’anno. Sudato, ribelle, immediato, ironico e autoironico, scanzonato. La ragazza ha forza, stile e fascino, e il suo primo LP lo dimostra eccome.
Low, “Ones And Sixes” – Un album potente. Non hanno nulla da dimostrarci i Low, hanno già fatto tanto e bene. Ho accolto questo ultimo lavoro con una moderata attesa, senza aspettarmi nulla di più di quello che già conoscevo. E invece no: “Ones And Sixes” è un album che esprime vigore e sostanza, che crescono ogni volta che si riascolta. Quindi non è vero che i Low non hanno nulla da dimostrare: proprio come fanno i professionisti, non smettono mai di farci vedere quanto sono bravi.
American Wrestlers, “American Wrestlers” – Senza dubbio uno degli esordi migliori dell’anno. Lo-fi per necessità ma spigliatezza pop d’attitudine, pure qualche piacevole schitarrata qua e là. Scoperto (pur)troppo tardi per finire dove forse dovrebbe meriterebbe di stare, e cioè tra le prime dieci posizioni.
C Duncan, “Architect” – La prima volta che ho sentito una canzone di C Duncan quest’anno è stato alla radio e pensavo fosse una traccia a me sconosciuta degli anni ’60: “Say” – ipnotica, folk, psichedelica nelle atmosfere. E invece è del 2015, e composta da un ventidueenne occhialuto che ha studiato al conservatorio. Il resto del suo album d’esordio è bello uguale: affascinante, dal retrogusto antico.
NEW FRONTIERS
I dischi qui sotto sono quelli che per uno specifico aspetto reputo i più importanti tra quelli ascoltati quest’anno: sono infatti quegli album che non mi aspettavo di ascoltare ripetutamente e che invece hanno finito per allargare i miei confini musicali. Sono fuori classifica proprio perchè per me rappresentano un territorio musicale nuovo e fino a poco tempo fa inesplorato: esprimere un giudizio sarebbe stato molto velleitario.
Jonny Greenwood, Shye Ben Tzur, Rajasthan Express, “Junun” – Spirituale, mistico, intimo, orientale, religioso, antico, ma anche terreno, occidentale, umano, collettivo. La forza che sento esprimere da “Junun” è proprio quella di saper contenere e rendere coerente una cosa e il suo stesso contrario. Un’opera che va ben al di là della musica. Forse in una classifica molto più “ragionata” sarebbe stato al primo posto.
Floating Points, “Elaenia” – Tra i protagonisti del mio 2015 musicale c’è anche e senza dubbio Floating Points. Arrivato quasi paradossalmente in ritardo per essere definito debut album (Sam Sheperd, il titolare del progetto, produce da anni cose importanti nel panorama elettronico), “Elaenia” è un disco che sorprende all’ascolto immediato e conquista con l’ascolto prolungato. È un disco jazz, a tutti gli effetti, in cui l’elettronica si innesta in modo prettamente funzionale e non protagonistico. Il prodotto finale è un disco elegante e colto.
DISCO DELL’AMOR
Leon Bridges, “Coming Home” – Probabilmente per molto altro tempo non ascolterete niente di più dolce, zuccherato, innamorato di questo album qui. Sam Cooke nel 2015. Un esordio che profuma già di grande classico.
TOP 5 DISCHI ITALIANI
Iosonouncane, “Die” – Primo tra gli italiani, con gradissimo scarto, c’è Iosonouncane. Un album coraggioso, in cui l’artista sardo rumina le sue tradizioni, la sua poetica, le sue idee, le sue influenze. È già a suo modo, nel suo contesto, nel suo tempo un pietra miliare.
Go Dungong, “Novanta” – Già con “A Love Explosion”, uscito ad inizio anno, ci ero rimasto sotto. Beat analogici, sctrach vecchio stile, sample cinematografici ed un’elettronica calda e zuccherata conquistavano al primo ascolto. Poi ecco “Novanta”, ad alzare ancora – e di molto – l’asticella: un album nomade, che pulsa di vita di strada, di periferia, di favelas milanese. Un disco vero, di una spontaneità che raramente si trova nel suo campo.
Indian Wells, “Pause” – Ho una fascinazione particolare per quell’elettronica notturna, dal suoni soffusi, ipnotici, poco luminosi. E l’ultimo disco di Indian Wells ha tutto quello che deve avere per piacermi.
Catalano, “Patience, Perseverance” – Abbiamo presentato Catalano qui su Kalporz proprio quest’anno, quando fece uscire la prima traccia di “Patience, Perseverance”. Mi ha colpito da subito per come riusciva a fare a pezzettini le sue influenze e poi a rimestarle tutte in un suono dilatato e avvolgente: shoegaze, kraut, ambient, unite da un collante elettronico di pregevolissima fattura.
Bienoise, “Meanwhile Tomorrow” – Qui vale la stessa cosa scritta per “Pause” di Indian Wells, ma c’è anche qualcos’altro in più. Qualche venatura più calda, merito dei sample e del cantato – come nella title track, il pezzo più riuscito del disco. Ho passato gli ultimi giorni ad ascoltarlo in loop, e in classifica ci entra eccome.
CANZONE DELL’ANNO
Kurt Vile, “Wheelhouse” – È proprio lo stesso Kurt Vile ad aver dichiarato che “Wheelhouse” è la sua miglior canzone di sempre. Come non dargli retta, lui che è il diretto interessato? Un brano senza ritornello, che sta in piedi su un unico giro di chitarra, permeato di influenze musicali e non: dentro ci si sentono le atmosfere desertiche dello studio dove è stato registrato (il Rancho De La Luna di Joshua Tree, California), e ci si sentono anche le forti influenze dei Tinariwen, che hanno partecipato proprio alla jam session da cui è nato il pezzo. Sei minuti di ipnosi. Il suo capolavoro.
TOP 10 EP
Weyes Blood, “Cardamon Times” – Ho incontrato Weyes Blood grazie al video di “In The Beginning”, l’unico estratto da “Cardamon Times”. Ed è bastato per rimanerne ipnotizzato: un folk malinconico e dolceamaro, struggente e lenitivo allo stesso tempo. A tratti mi ha ricordato Sharon Van Etten per la capacità di creare momenti ad altissima intensità emotiva nelle sue canzoni, ma sarebbe un paragone ingiusto. Weyes Blood è un’artista davvero promettente e presto o tardi ce ne innamoreremo tutti.
Maalem Mahmoud Guinia, Floating Points, James Holden, “Marhaba” – Nel mio personale 2015 musicale Floating Points è stata una figura molto presente. Sia per “Elaenia” – il suo primo LP – sia anche per questo EP in collaborazione con l’artista marocchina Maalem Mahmoud Guinia e James Holden. Il disco è proprio come ve lo immaginate: una fusione elegante e magnetica di elettronica e tribalismi africani.
Tei Shi, “Verde” – Alzi la mano chi è riuscito a rimanere impassibile dopo aver ascoltato quel pezzone che è “Bassically”. Io ad esempio ne sono rimasto folgorato. Elettronica, pop, e sensualità vocali vicine all’r’n’b: per farla breve, Tei Shi è una bomba.
Petite Noir, “The King Of Anxiety” – Yannick Illunga, il titolare del progetto Petite Noir, è un ragazzo a cui non manca l’autostima. All’uscita di questo suo primo EP si è proclamato portavoce della noir wave, etichetta musicale di sua stessa invenzione. Potrebbe stare antipatico, ma la realtà è che il ragazzo sudafricano e londinese d’adozione è davvero bravo: voce incredibile, e uno stile electro-glam-pop già riconoscibile. “The King Of Anxiety”, l’EP, è anche meglio dell’LP “La Vie Est Belle” uscito pochi mesi dopo: in poche canzoni mostra tutta la sua bravura.
Tropic Of Cancer, “Stop Suffering” – Camella Lobo è tornata e l’ha fatto con un disco dei suoi, anche meglio dei precedenti. Atmosfere gelide, synth glaciali e voce riverberatissima: “Stop Suffering” sembra registrato dentro una caverna. Così freddo che vi piacerà sentirvi battere il cuore.
Beak>, “Split EP” – Atmosfere ansiogene che spaziano dal noise, al lo-fi, all’alt-rock anni ’90. Se non conoscevate questo progetto di Geoff Barrow dei Portishead allora è il momento giusto per rimediare.
Thundercat, “The Beyond” – Thundercat è senza dubbio una delle personalità chiave del 2015 musicale: è stato lui a produrre, insieme ad altri, due dei dischi più importanti dell’anno: “To Pimp A Butterfly” di Kendrick Lamar e “The Epic” di Kamasi Washington. Ma anche se ne comprendo la grandezza artistica, i dei due dischi appena citati fanno fatica a coinvolgermi. Cosa diversa è questo EP, a cui partecipano tra gli altri, Washington e Flying Lotus. Groove, bassi ciccioni, qualche sprazzo sospeso di elettronica non invasiva.
Kelela, “Hallucinogen” – Per la serie dei “più digeribili” c’è anche Kelela. Il suo è un sound molto simile a quella roba inconsistente che facevo fatica a sopportare in FKA Twigs. Ma qui c’è più sostanza: l’r’n’b si sente di più, è meno lavorato e quindi molto più puro. Più suono. Ne consegue quindi una considerazione molto semplice: che Kelela mi piace, FKA Twigs no.
Amen Dunes, “Cowboy Worship” – L’anno scorso uscì “Love”, struggente album folk di Amen Dunes che piazzai con convinzione alla posizione n°2 della mia classifica. È passato solo un anno, ma quelle canzoni rimangono ancora meravigliose: se ne deve essere accorto lo stesso autore, che infatti ha fatto uscire questo piccolo EP in cui sono ri-registrate alcune delle migliori canzoni “Love” e qualche altra bellezza (“Song To The Siren”).
10 ORE DI MUSICA: #STRADICONSIGLIA2015
VIDEO DELL’ANNO (EX AEQUO)
Panda Bear, “Tropic Of Cancer” (la spiegazione qui)
M.I.A., “Borders” (la spiegazione qui)
TOP 3 ARTWORK
1. The World is a Beautiful Place & I am No Longer Afraid to Die, “Harmlessness”
2. Father John Misty, “I Love You Honeybear”
3. Deerhunter, “Fading Frontiers”
TOP 3 LIVE
Sufjan Stevens @ Teatro della Luna, Milano
Beck @ Flow Festival, Helsinki
Future Islands @ Flow Festival, Helsinki
FOTO DELL’ANNO (E ANCHE DELLA VITA)
Arti Vive Festival 2015. Io e Giovanni Lindo Ferretti.