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Ciao Håkon, piacere di conoscerti e grazie per avermi concesso questa chiacchierata. E’ un grande onore per me. Sono un fan dei Mortorpsycho da oltre vent’anni e ricordo ancora chiaramente il primo concerto dei MP che ho visto. Curiosamente proprio nella mia città, al Maffia Club di Reggio Emilia. Ricordo Bent vestito da scheletro come John Entwistle degli Who e una scaletta pazzesca che si è conclusa con Vortex Surfer.
Ciao Andrea, piacere mio! In effetti all’epoca eravamo tutti vestiti da scheletro, io indossavo calzoncini corti e t-shirt… che però sono spariti una volta che li ho messi ad asciugare all’aperto, fuori dal camerino. Eravamo alla fine del tour, in Germania, e qualche fan deve avermeli fregati!
Non ci crederai, ma ricordo bene la data di cui mi parli: Reggio Emilia è per me una città particolare, la lego a mia madre, che ha sempre avuto una forte connessione con la tua città per via del sistema didattico infantile sviluppato da Loris Malaguzzi. Mia madre non ha viaggiato molto nella sua vita, e Reggio Emilia le è rimasta nel cuore, per questo ero felice di essere lì.
In ottobre ti sei nuovamente seduto dietro le pelli insieme ai tuoi ex compagni, dopo dieci anni e per celebrare i 25 anni di attività della band e inaugurare una mostra presso il Rockheim a Trondheim (Museo Nazionale di Musica Popolare), suonando tre date sold-out che ripercorrevano il vostro storico album del 1993, Demon Box. Cosa hai provato nel ritrovarti a suonare la batteria con Bent e Snah e suonare nuovamente quelle canzoni?
In realtà ho suonato con i miei vecchi compagni anche nel 2010, in occasione del live dedicato all’album Timothy’s Monster all’Øya Festival di Oslo, ed è stata un’esperienza grandiosa.
Per Demon Box, Snah ha iniziato a contattarmi più di un anno fa, e qualche mese dopo abbiamo deciso di incontrarci e suonare insieme presso il mio studio. Io, Bent e Snah. Ho dato il quattro e tutto è uscito in modo assolutamente naturale, e noi siamo rimasti piacevolmente sorpresi, immediatamente è riemersa la nostra alchimia.
Quando suonavo nei Motorpsycho non ci siamo mai sentiti abbastanza bravi, o sicuri del nostro potenziale, e questo aspetto è sempre stato molto stressante, eravamo perennemente insoddisfatti e in cerca di miglioramento. Questa volta è stato invece molto divertente, nonostante alla fine le mie mani fossero piene di vesciche! Siamo più vecchi, forse abbiamo capito che uno sbaglio non è la fine del mondo e che probabilmente non viene nemmeno percepito dalla maggior parte del pubblico… quindi, tolto lo stress, è rimasto solo il divertimento di suonare live.
Preparare queste tre date è stato in generale un lavoro molto complesso, soprattutto per l’interplay necessario tra me e Kenneth (Kapstad, l’attuale batterista dei MP), visto che abbiamo uno stile e un modo di suonare completamente differenti. Kenneth è molto più tecnico e sempre sul beat, mentre io tendo a stare dietro. Anche Bent è sempre stato sul beat, a volte addirittura anticipandolo, mentre io lo rincorrevo per restare a tempo. Credo che il groove dei MP fosse basato proprio su questo sfasamento.
Per questo motivo quando ascolto le vecchie canzoni eseguite dalla nuova formazione, con un drumming così tecnico, la mia percezione del risultato è differente, i brani mi arrivano in modo diverso e credo che perdano in musicalità.
Temevo potesse risultare complicato suonare un album semplice e primitivo come Demon Box con due batterie, immaginavo un risultato caotico, ma è stato invece facile e molto naturale. Non so come suonava ascoltato da fuori, c’è una registrazione audio/video fatta da diverse telecamere, io non l’ho ascoltata, ma lo stanno facendo Bent e Snah, e se è buona forse uscirà qualcosa, magari un DVD.
Motorpsycho performs “Demon Box” (Slottsfjell, 18.07.15) Photo Marì — con Håkon Gebhardt e Kenneth Kapstad
Ti confesso che essendo uno psychonaut da oltre vent’anni ho sofferto molto la tua dipartita, perché a mio avviso sono venute meno alcune invenzioni e sonorità, che nel tempo ho associato per deduzione al tuo personale contributo. Mi riferisco in particolare ad un certo approccio “american psych country rock” alla Flying Burrito Bros e Grateful Dead. Nello specifico sono sempre stato molto legato al vostro side project “International Tussler Society” e più nel dettaglio anche a lavori come “Gebhardt Plays With Himself” e la tua produzione con HGH.
Mi vuoi dire come ti sei avvicinato a questo genere e come mai hai scelto di preferire uno strumento come il banjo alla batteria nell’evoluzione del tuo percorso di musicista?
In realtà è stato più Bent a introdurre nella band le sonorità di cui parli. Nei primi anni novanta a Trondheim, e più in generale in Norvegia, c’era una scena che seguiva quel particolare suono, erano tutti pazzi per Gram Parsons. Io arrivavo invece da ascolti thrash metal, come Slayer, Venom, o Testament.
Con Snah ci siamo conosciuti due anni prima della formazione dei Motorpsycho, sui banchi di scuola, ai tempi del Trøndertun, una specie di liceo musicale. Suonavamo insieme in una band chiamata Secret Fish, iniziammo con cover tipo Rainbow, Black Sabbath, roba basic heavy metal, ma ci rendemmo presto conto che era “una palla”, mentre noi volevamo di più, volevamo sfide per migliorarci. Mandammo quindi via la cantante e iniziammo a suonare musica strumentale.
La mia mente ha iniziato ad aprirsi a livello musicale quando avevo circa diciannove anni, studiavo sound engineering a Oslo e uno dei ragazzi con cui dividevo l’appartamento mi faceva spesso ascoltare cose tipo The Residents o King Crimson. Musica “strana”, che di certo non era suonata in quattro quarti.
La prima volta che vidi un concerto dei Motorpsycho (sempre ad Oslo) rimasi molto colpito: era roba strana e suonata dispari, ma che allo stesso tempo manteneva un certo approccio primitivo. Quando sono tornato a Trondheim e ho iniziato a suonare insieme a loro non avevo mai sentito parlare di Nirvana, Sonic Youth o in generale di musica grunge, Bent mi fece diverse cassette. Alle prime prove insieme pensavo che avremmo suonato Lobotomizer, mi dissero invece che avevano roba nuova da provare, che non riuscivano a suonare con il precedente batterista. Leggendo poi la recensione del mio primo live con i MP, ho visto la parola grunge e ho pensato: cos’è questo “Grunge”?!!… pensavo fosse un termine dialettale norvegese di qualche villaggio, non avevo idea di cosa stessero parlando.
Quanto al banjo, avevo deciso di comprarne uno già prima di entrare nei Motorpsycho. Stavo lavorando in studio con una band country e odiavo la country music… ma in seguito a questa esperienza mi sono reso conto che erano grandi musicisti, facevano cose semplici ma che mi toccavano nel profondo. Avevano un suonatore di banjo e quando l’ho sentito suonare ho pensato: questo è lo strumento che voglio!
Con i proventi di Demon Box ho quindi comprato un banjo economico, lo portavo alle prove e suonavamo i pezzi di Demon Box in acustico. Lo facevamo per noi stessi, per scaldarci e divertirci.
Gebhardt Plays With Himself l’ho registrato negli anni: in tour, a casa, in spiaggia a Rimini!… Insomma, ovunque tranne che in studio. Avevo sempre con me un registratore a microcassette e se mi veniva in mente una melodia la cantavo registrandola con quello, o magari ci registravo una linea di ukulele. Le microcassette hanno una qualità di registrazione orribile, ma non sentivo la necessità di andare in studio e mettermi davanti ad un microfono costoso, la microcassetta era perfetta per quello che avevo in mente. Ho registrato parecchio materiale in viaggio e l’ho riversato usando il mio quattro tracce. E’ un disco molto intimo e primitivo, che mi piace ancora tanto.
(fine prima parte)
(Andrea Scarfone – Editor For a Day)