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Lo scorso anno abbiamo iniziato a stilare anche la Top 7 delle canzoni dell’annata perché le songs sono probabilmente – oggi – la forma più fruita di contenuto musicale. E, come nel 2014, ha vinto una canzone contenuta in un album che non è nemmeno nei primi 5 dei Kalporz Awards propriamente detti. Perché si può amare follemente un quadro ed annoiarsi a vedere la mostra completa.
7. “LIVING ZOO”, Built To Spill
L’ “American indie” in quattro minuti e venti: melodie, pop chitarristico e background post-hardcore. Gli originali – i Built to spill sono in giro dai primi anni novanta – non si battono perché, dopo sette dischi (“Untethered Moon” è l’ottavo), riescono ancora a scrivere canzoni senza tempo. Ed alla fine non è importante se siamo nel 1995 o nel 2015.
(Monica Mazzoli)
6. “IDENTIKIT”, Verdena
Una lieve pioggia di gocce di cristallo, introduce una sognante jungla metropolitana. E’ una canzone d’amore, di dubbio, di richieste. La ricerca diventa forsennata, quasi disperata nella sua seconda parte, fino alla chiusura, che tende alla calma (prima della tempesta che non conosceremo).
(Elisabetta De Ruvo)
5. “ALRIGHT”, Kendrick Lamar
Il colore Viola secondo Kendrick. Il brano inizia con una citazione rivisitata dal celebre romanzo sull’America segregata di Alice Walker sdoganato (e rovinato) dal film di Spielberg: “I had to fight”. E Lamar si rende portavoce con la sua ironia e i suoi toni duri e mai retorici, della rabbia afroamericana dei nostri giorni. “We gon’t be alright” è il motto di Black Lives Matter, movimento di protesta nato dopo l’assassinio per mano di un membro del neighborhood watch (le ronde di quartiere) del 17enne di Miami Trayvon Martin. Il suo flow va giù a meraviglia su un tappeto jazzato sincopato messo in piedi da Pharrell, per un manifesto del 2015 potente e spietato.
(Piero Merola)
4. “SILHOUETTES”, Viet Cong
Quando le tenebre vanno a braccetto con il post-punk, la new-wave e l’art-rock: i Viet Cong come degli Interpol di questo decennio con molte, molte più sfumature.
(Paolo Bardelli)
3. “STORMI”, Iosonouncane
“Stormi” è il secondo brano di “Die”, che più che un album è una pièce musicale. A contrario della canzone che lo precede – “Tanca”, ruminante, granitica, oppressiva – “Stormi” distende e alleggerisce le atmosfere sonore. L’incipit acustico introduce al pezzo più pop del disco, quello che più si avvicina al cantautorato pur rimanendo all’interno del peculiarissimo stile di Iosonouncane: strofe, ritornello da cantare, pure qualche suggestione sonora marittima – le marimbe – che mi ricorda, alla lontana, le riflessioni marine-esistenziali-filosofiche di Lucio Dalla.
(Enrico Stradi)
2. “LET IT HAPPEN”, Tame Impala
Una canzone che è un ottovolante: contrariamente al resto dell’album, “Let it happen” coniuga in maniera impeccabile il nuovo corso “patinato” con le volontà psichiche e sixties del passato della band australiana. Dentro c’è tutto: ritornelli sommersi, innovativi effetti “disco incantato”, batterie incalzanti, voci doppiate alla Daft Punk, riff chitarristici alla Tame Impala. Insomma, un universo sulle montagne russe.
(Paolo Bardelli)
1. “WHEELHOUSE”, Kurt Vile
È proprio lo stesso Kurt Vile ad aver dichiarato che “Wheelhouse” è la sua miglior canzone di sempre. Come non dargli retta, lui che è il diretto interessato? Un brano senza ritornello, che sta in piedi su un unico giro di chitarra, permeato di influenze musicali e non: dentro ci si sentono le atmosfere desertiche dello studio dove è stato registrato (il Rancho De La Luna di Joshua Tree, California), e ci si sentono anche le forti influenze dei Tinariwen, che hanno partecipato proprio alla jam session da cui è nato il pezzo. Sei minuti di ipnosi. Ed è meraviglia.
(Enrico Stradi)