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Sull’artwork in copertina, un capricorno marino, la creatura mitologica risalente all’antica Grecia che sta a significare l’incompletezza, l’essere incompiuto. Nel titolo, un’altro riferimento al mito, con la citazione di Giano, il dio dalle due teste, una rivolta al passato e una rivolta al futuro. Il nuovo disco di Matt Kivel si presenta fin da subito un lavoro intellettualmente profondo, impegnativo, denso – almeno per chi sa coglierne gli immaginari e i riferimenti.
“Janus” arriva a suggellare una fase molto prolifica per il cantautore americano, che dal 2013 in poi ha scelto la via solista, ponendo fine ai tentativi muiscalmente poco calibrati intrapresi con un paio di band per quasi una decina di anni. È il terzo disco, forse non il migliore, ma è probabilmente la sua opera più interessante. Per un motivo in particolare: come già facevano intuire la copertina e il titolo, “Janus” è un album in cui Matt Kivel prova a fare i conti con sé stesso, sospeso in una dimensione presente che è per sua stessa natura temporanea e caduca, mutevole e costantemente in bilico tra l’essere e l’essere stato.
Questa natura cangiante viene tradotta in tutte le parti che compongono il disco: nella musica e nei testi. Le tinte folk che nei primi due dischi creavano spazi vuoti e momenti di quasi assenza sonora, forse nel tentativo di mettere ordine alle idee e alla musica, non ci sono più. Rimangono le atmosfere intime, delicate, vellutate della chitarra acustica, ma in “Janus” servono a tessere una maglia soffice su cui si appoggia più o meno delicatamente l’elemento di novità: un suono, una melodia, un arrangiamento che arriva sul finale delle canzoni e che ci sorprende per la sua articolata ricchezza. Succede così in “Janus”, nella cui elementare struttura acustica all’improvviso irrompe un violino; in “Shining Path”, con la coda affidata ad un organo; in “Prime Meridian”, dove un piano dalle tinte delicate si sclerotizza in due in due momenti di fiati free-jazz; gli stessi fiati che tornano in “Jamie’s” a dare corpo ad una chitarra power-pop molto simile a quella dei Real Estate, che diventa ancora più evidente in “Violets”.
Una produzione più estesa e sperimentale che non si manifesta in tutto il disco, ma si fa evidente soltanto in alcune tracce. E che non si impersona soltanto in Kivel, che al contrario dei lavori precedenti non ha lavorato in solitaria: questa volta il cantautore ha registrato il disco in Scozia, lavorando in maniera simbiotica con il cantautore Alasdair Roberts e una band di musicisti locali. Quel suono corale e articolato che contraddistingue solo alcuni precisi momenti di “Janus” è proprio dovuto a questa nuova sperimentazione del lavoro in team, che indubbiamente rende più corposa, ricca ed interessante la proposta musicale. E questo nonostante l’imperfezione congenita dell’album, che per sua natura si trova a metà strada tra quello che Matt Kivel era prima, e quello che Kivel sarà dopo questo disco. Quello che ascoltiamo ora comunque è molto buono.
70/100
(Enrico Stradi)