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Se esiste una cosa dannatamente difficile in questo mondo, è il dover decidere di imprimere a caratteri forti la parola ‘fine’.
Ancora più difficile è farlo con dignità, rispettando il proprio passato e le aspettative delle altre persone.
James Newell Osterberg Jr. – o se preferite più semplicemente Iggy Pop – più di una volta ha rischiato di doversi arrendere ad una fine impietosa che gli incombeva addosso. Nei ’70 è sopravvissuto, grazie anche all’aiuto dell’amico-mentore David Bowie, al temporaneo scioglimento degli Stooges causato dalla dipendenza dall’eroina e da un soggiorno in un ospedale psichiatrico. Nell’ultima decade, ha visto i ritrovati bandmates degli Stooges morire uno dopo l’altro.
Ma come abbiamo detto, Iggy è un survivor, uno che ha fatto a cazzotti con il rock nelle sue forme più estreme, violente e iconoclaste, e che ha vinto, prendendosi di fatto un ruolo permanente nella storia della musica rock.
Alla soglia della terza età, a 69 anni suonati l’Iguana esce allo scoperto per dare quello che sembra il suo ultimo assalto. In combutta con un altro personaggio niente male come Josh Homme (Kyuss, Queen of the Stone Age, Eagles of Death Metal) e a Dean Fertita (Queen of the Stone Age) e Matt Helders (Artic Monkeys) il nostro si è barricato in uno studio in mezzo al deserto a suonare, sviluppare idee, esplorare nuovi territori.
Scalciate con forza le sonorità con cui avevamo visto Iggy vestirsi negli ultimi anni, “Post Pop Depression” tende a ricalcare l’Iggy Pop della rinascita, quello di “The Idiot” del ’77 scritto e prodotto da Bowie, aggiungendo un delizioso tocco di classe e stoner da parte di Homme.
L’introduzione, affidata a “Break Into Your Hearth”, con il suo incedere presuntuoso –un disco che si apre con un vecchio che dichiara “I’m gonna break into your heart” supportato da una sezione di fiati capite che possa lasciare interdetti per qualche secondo- si fa invece sempre più suadente e convincente, e quando Nonno Iggy riesce davvero a fare breccia nel mio cuore ecco che esplode in quel mosaico di suoni e colori di “Gardenia”, singolone di lancio che avrà fatto saltare più di un incredulo ascoltatore dalle sedie sentendolo per la prima volta in radio o dal pc.
Non manca nulla, in “Post Pop Depression”. Ci sono gli echi new wave di “German Days”, la rabbiosa acustica “Vulture”, il desert-rock epico di “American Valhalla”, la disco/funky serrata di Sunday, che conclude con un inaspettato finale orchestrale.
Probabilmente nessuno si aspettava un disco così incredibilmente in tiro da parte del buon vecchio Iggy. Forse nemmeno lui. O forse noi siamo solo stati degli ingrati, dimenticandoci di come l’Iguana sia sempre sopravvissuto a tutto per poi tornare a stupirci con qualche colpo di scena.
“I’ve nothing but my name” ripete cupamente nella coda di “American Valhalla”. Un nome che è diventato sinonimo del rock, del punk, di ribellione. E chissà che non torni a brillare ancora una volta nel futuro, stupendoci per l’ennesima volta.
75/100
(Matteo Mannocci)