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Teheran, Iran. Da Gabriele Basilico, Iran 1970, ph. Giovanna Calvenzi
Tra due mesi Reggio Emilia ospiterà la decima edizione di Fotografia Europea, la rassegna di fotografia contemporanea divenuta nel corso degli anni uno degli appuntamenti probabilmente più importanti del panorama artistico e culturale italiano.
L’edizione di quest’anno è incentrata sul tema “La via Emilia: strade, viaggi, confini”. Lo staff di Fotografia Europea ci ha chiesto di provare a dire la nostra sull’argomento, perciò ecco la nostra top7 dedicata alla strada.
Scegliere solo sette canzoni per un argomento così immensamente vasto era impossibile, e sicuramente deficitario. Per questo motivo, abbiamo immaginato di sviluppare il tema attraverso le diverse tappe di un ipotetico viaggio: partenza, itinerario, sosta, perdersi, ritrovarsi, stanchezza, arrivo. Fate buon viaggio.
1. PARTENZA: Kraftwerk, “Autobahn”
Il suono di un motore, una parola ripetutamente deformata filtrandola con un vocoder: questo è l’inizio di un viaggio che i Kraftwerk hanno cominciato quarantadue anni fa, dando alle stampe quel “Autobahn” che diventerà imprescindibile paradigma per le decadi a seguire e per centinaia di artisti. Sopra ad un tappeto percussivo sintetico fatto di drum pad e sintetizzatori, le tastiere dei quattro uomini robotici tedeschi compongono un arazzo musicale che connette, concettualmente, l’Europa in un’autostrada (la autobahn) sotto il segno del razionalismo tedesco, mettendo anche un grande zampino per la nascita e lo sviluppo della musica elettronica. Un vero e proprio inizio.
(Matteo Mannocci)
2. ITINERARIO: Nick Drake, “Road”
Il viaggio può essere interiore ed avvenire su più livelli, anche contrastanti. “Road” (1972), brano firmato da Nick Drake, è un percorso in cui mente ed anima si muovono su punti di partenza e d’arrivo contrapposti: la luce e l’oscurità. Nella prima strofa il cantautore inglese in pochi versi tratteggia due scenari totalmente differenti, il sole e la luna : “You can say the sun is shining/ if you really want to/ I can see the moon/ and it seems so clear”. Come a voler dire: tu puoi dire che il sole sta splendendo se proprio vuoi ma io, no, perché vedo la luna, così limpida e chiara. In musica le sfumature cromatiche dell’io dell’autore trovano espressione nel malinconico e leggiadro andare del fingerpicking chitarristico. La composizione si spoglia e si mette a nudo, senza le orchestrazioni presenti nei dischi precedenti (“Five leaves left”,1969 e “Bryter Later”, 1971). “Road” è quindi, in poche parole, un cammino alla ricerca di se stessi, “I can take a road/ that I’ll see me through”.
(Monica Mazzoli)
3. SOSTA: Tom Waits, “Nirvana”
Ognuno di noi dovrebbe avere un altrove, un luogo a cui riportarsi – con il corpo o con la mente – quando tutto sembra crollare, quando le cose vanno dannatamente storte. Bukowski ha descritto questo luogo perfetto che ci fa sentire cuccioli come sul ventre di nostra madre, e Tom Waits l’ha “cantato” come meglio non si può: un viaggio nella neve con il bus, una fermata in un “little cafe” e da piccoli particolari il capire che si vuole rimanere lì per sempre. Perché lì tutto è bellezza. Ma il viaggio deve continuare, e bisogna risalire sul bus. Gli altri passeggeri parlano, leggono o dormono, incuranti del piccolo miracolo che hanno vissuto, e di cui non si sono accorti. Forse perché quello era l’altrove solo di quel ragazzo, forse perché erano distratti.
They hadn’t noticed the magic.
O forse perché quel luogo di sosta era, in fondo, la meta. Così come non è la morte la meta della nostra vita, ma più probabilmente lo sono le soste intermedie. Quelle trascorse accanto ad una persona o in un non-luogo in cui, per noi, tutto è bellezza.
(Paolo Bardelli)
4. PERDERSI: Talking Heads, “Road To Nowhere”
David Byrne voleva scrivere una canzone che rappresentasse “uno sguardo rassegnato ma gioioso al destino, alla nostre morti e anche all’apocalisse…”. Così scrive nelle liner notes dell’album “Once in a Lifetime: The Best of Talking Heads”. Con quei due semplici accordi incorniciati da un breve ma intenso coro gospel (voluti dallo stesso Byrne per rendere la canzone meno “monotona”), Road to Nowhere è un vero e proprio testamento filosofico. Molto prima che imparassi l’inglese e i sensi di marcia, molto prima che mi ponessi delle domande sull’esistenza, i Talking Heads mi avevano gia dato le risposte “Well we know where we’re goin’ But we don’t know where we’ve been”. Un percorso che accomuna tutti, che non ha ne un inzio ne una fine se non un andare e perdersi perpetuo. “And it’s all right, baby, it’s all right”
(Tea Campus)
5. RITROVARSI: Sufjan Stevens, “Chicago”
Il brano più famoso del genio di Detroit è anche il brano più da strada mai scritto da Sufjan Stevens, ispirato alla composizione dallo stesso titolo dello scrittore Saul Bellow, canadese adottato anche lui da Chicago, e reso famoso, non a caso, dalla colonna sonora di un road movie di culto come “Little Miss Sunshine”. Nelle sue inquietudini giovanili le strade che lo portano dalle campagne del Michigan alla città dell’Illinois (Stato a cui è dedicato quest’album, uscito nel 2005) sono l’immediata via di fuga dal torpore della periferia del Midwest. Sufjan è nato a Detroit, ma da piccolo si trasferisce nell’assonnata Petoskey, Chicago diventa la sua ancora di salvezza. Il brano è un’irresistibile cavalcata sinfonica senza tempo, uno dei tanti viaggi tra le sue memorie, tra nostalgia, spiritualità e un’energia mai spenta da imprevisti o drammi esistenziali. C’è anche la rotta verso New York come se fosse, più che un semplice approdo, una vera e propria terra promessa. Oggi New York è la città in cui risiede e con cui ha un rapporto contraddittorio. Un decennio fa le strade dei ricordi che ispiravano la produzione artistica di Sufjan portavano dalla campagna alla metropoli, oggi seguono idealmente la direzione opposta.
(Piero Merola)
6. STANCHEZZA: Arcade Fire, “Keep The Car Running”
La stanchezza prelude all’inerzia. In un viaggio vuol dire quando assumiamo la velocità di crociera, con il pedale dell’acceleratore a metà, in vista dell’ultima parte del nostro tragitto. Ci succede così di fermare quell’ultimo momento vissuto in automobile, cristallizzarlo e renderlo per così dire, infinito. Non a caso questo pezzo è il singolo numero otto dei canadesi Arcade Fire (estratto da “Neon Bible” del 2007) e suona come il loro brano più riconoscibile: un giro di accordi sempre uguale a sè stesso, preso dalla tradizione folklorica dei grandi spazi del continente americano, eppure sofisticato nell’arrangiamento di archi e chitarre deraglianti guidate da una batteria cadenzata di stampo rockabilly. Perchè muoversi in pista nel modo più immediato possibile al suono di una bella canzone è come guidare senza più pensare, convinti di vedere l’arrivo alla nostra portata. “Every night my dream’s the same Same old city with a different name. Men are coming to take me away I don’t know why, but I know I can’t stay”
(Matteo Maioli)
7. ARRIVO: Nick Cave & The Bad Seed, “Jubilee Streets”
La strada del Giubileo immaginata da Nick Cave è popolata da peccatori alle prese con il loro bilanci esistenziali. Una strada degli errori e di chi li ha commessi, dei rimpianti, dei rimorsi, delle occasioni perduti. Tra le tante persone che la popolano, c’è una ragazza squillo che si è messa nei guai. Le hanno sparato. Si guadagnava da vivere come poteva, di qualcosa d’altronde si deve pur campare e quello di cui campava lei sembrava non dare fastidio a nessuno. Ora che è morta, nessuno si cura più di lei: la sua stanzetta sudata ma umile rimane chiusa, il letto non è più caldo. C’è solo una persona a piangerla, ed è la stessa persona che ora si vede vagare affranta e spaventata per Jubilee Street, portando con sé il frutto non-nato del loro amore. Quando entra nella stanza di Bee si accorge che tutto è cambiato. Solo le lenzuola hanno ancora il suo odore. Le annusa, le accarezza, si perde nei ricordi della sua vita trascorsa lì dentro. È quasi come se Bee fosse ancora lì con lui. Chiude gli occhi, li lascia chiusi. La immagina nuda, la sente muoversi sulla sua pelle. Catarsi. Si addormenta per non svegliarsi più. È finalmente arrivato alla fine.
(Enrico Stradi)