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Lo abbiamo scritto e ripetuto più volte, e lo facciamo una volta ancora: tra tutti gli artisti e i dischi italiani usciti quest’anno, dovreste tenere d’occhio Krano, la creatura di Marco Spigariol (ex Vermillion Sands, ora compagine dei Movie Star Junkies), che ha da poco fatto uscire il suo primo album “Requiescat In Plavem” per Maple Death Records. Un progetto e un disco densi e misteriosi, che abbiamo cercato di capire un po’ di più con un’intervista. Buona lettura.
Partiamo da lontano: è il 2009, e con i Vermillion Sands pubblicate un EP con Sacred Bones e un altro EP con Fat Possum. Cos’è successo dopo?
Caio se n’è andato a vivere in Francia, Anna negli States e Nene in Germania. Per un po’ l’idea è stata quella di continuare anche se distanti, ma ognuno ha iniziato a dedicarsi a propri progetti e nuovi gruppi e le strade inevitabilmente si sono separate.
“R.I.P.” ha preso vita durante un periodo di semi-isolamento sulle colline della Valdobbiadene. Perché hai scelto di “rifugiarti” proprio in quelle zone?
Dopo la separazione dei Vermillion Sands mi sono ritrovato da solo in Veneto, la mia terra d’origine. La maggior parte dei miei amici pian piano sono scappati da quei posti, quindi non mi sono isolato io, ma era il territorio ad essere già abbandonato! E “Requiescat in Plavem” è stato forse un augurio a me stesso, per riuscire ad andarmene…Poi per fortuna ho cominciato a suonare con la Piramide di Sangue ed altri progetti torinesi: questa città mi ha adottato.
Per come l’ho inteso io, “R.I.P.” è un disco molto ricco dal punto di vista narrativo. Le storie che canti le conoscevi già, o le hai scoperte in quel periodo?
Alcune in quel periodo, alcune prima. Di queste alcune sono rimaste così come le conoscevo, semplici storie che hanno ispirato una mia canzone; altre invece si sono rivelate ancora attuali, perché narrano eventi che a distanza di anni sono nuovamente accaduti, come nel caso di “Va Pian”: inizialmente è nata come una dedica ad un mio caro amico morto adolescente in un incidente stradale, in seguito l’ho dedicata anche ad un altro amico scomparso due anni fa.
Utilizzare il dialetto veneto è forse la scelta stilistica che ho apprezzato di più. Ci vuole coraggio ed onestà per intraprenderla. Quando hai deciso di scrivere le canzoni in dialetto? Fin dall’inizio della gestazione del disco – a priori quindi – oppure no?
Avevo già in mente di creare un gruppo country-punk in dialetto, ma mi sono accorto presto che non mi andava di usare i soliti testi goliardici che contraddistinguono il dialetto. Così ho deciso di concentrare la scrittura su di me, e su tutto ciò che fosse per me fonte di ispirazione. Molto presto però questi testi “seri” hanno finito presto con il cozzare con le musiche country, e quindi ho deciso di cambiare totalmente registro.
Rispetto alle intenzioni iniziali insomma l’obiettivo è cambiato, senza però perdere quello spirito punk che ho cercato di mantenere vivo.
Secondo te scrivere un disco in dialetto nel 2016 è una scelta “innovativa”?
Sì e no. Non è una scelta innovativa nel senso che esiste parecchia musica cantata in dialetto veneto, ma dal punto di vista dei contenuti sì, la ritengo sicuramente un’innovazione: tutti i gruppi che usano il dialetto veneto lo fanno solo per parlare di panini ludri, musetti, festini buei, grandi fighi e grandi bidelli…Quindi nonostante la mia possa non sembrare una scelta stilistica originale, in verità lo è perché uso il veneto come strumento e mezzo per affrontare argomenti diversi da quelli solitamente trattati.
Nel mio caso c’è stato molto lavoro di ricerca sulla lingua, oltre che la voglia di distinguersi: nessuno riesce ad interpretare il dialetto veneto in modo allo stesso tempo non scherzoso e disinvolto, nessuno lo canta alla stessa maniera di come lo parla normalmente, quindi ero interessato ad andare oltre i soliti canoni. Nessuno credeva che con questo disco sarei uscito dai confini di questa regione: io l’ho presa come una sfida (e l’ha vinta, ndr).
Le storie che racconti nel disco sono incomprensibili alla maggior parte dei tuoi ascoltatori. Ad esempio io ho capito di cosa parlava “Mi E Ti” solo dopo aver visto il video (bellissimo, complimenti al regista Samuele Gottarello). Insomma, c’è questa distanza linguistica che potrebbe spaventare l’ascoltatore e invece lo affascina. Tu la percepisci, oppure no?
Sì la percepisco, e penso sia normale essere affascinato da una cosa che non conosci. Ad esempio io sono affascinato da questo, cosa dirà mai? Un po’ di immaginazione deve esserci in ogni testo, l’immedesimarsi nel video ci sta altrettanto, anche se non è assolutamente un disco che parla del Veneto o del Piave o della guerra o del prosecco o dell’amore: è un disco che parla dei miei affetti perduti. Mi piace pensare che sia il nostro addio al Veneto, più che un omaggio.
Conosci il fotografo Walter Chappell? L’ho citato nella recensione del tuo disco: ci ho visto molte similitudini e spero di non aver sbagliato troppo. Ora però chiedo a te: c’è qualche artista che hai sentito presente, o comunque vicino, mentre lavoravi al tuo album?
La figura dell’artista Checco Nardi, come me diplomato al liceo artistico di Treviso, mi ha sempre influenzato ed affascinato.
L’artista in Veneto è denigrato, e in generale l’arte da noi non viene considerata un lavoro. La parola “lavoro” è ciò che fin da piccolo ti insegnano ad avere come obiettivo nella vita: non importa se non hai altri interessi al di fuori di quello, non importa se poi quando esci dal lavoro non hai nessun altro stimolo se non quello di rinchiuderti in un bar a bere, l’importante è che tu viva per lavorare. Chi si discosta da questo pensiero o prova a fare di una sua passione una professione viene escluso ed etichettato come una persona che della vita non ha capito nulla, mentre ho sempre pensato che forse sono quelli che la pensano così a non aver colto il senso della vita. Ognuno dovrebbe fare quello che crede e che si sente di fare, senza giudicare le scelte degli altri e senza quindi essere a sua volta giudicato. Sarebbe molto più facile.
p.s. Grazie Enrico, no non conoscevo Walter Chappell: non si smette mai di imparare!
L’ultima domanda è un po’ strana, lo ammetto.
Da qualche anno frequento più o meno quelle zone con regolarità. In realtà vado più a nord, tra le montagne del Friuli: Barcis, Claut, Erto, Casso, Longarone – non so se conosci. Forse è solo una mia impressione, forse sono i miei occhi emiliani a vederli così, ma in quei luoghi c’è qualcosa di molto americano, paesaggi sconfinati tipo Nebraska, Wyoming, Montana. In questo senso, mi sembra che il tuo disco – che molto a che fare con la natura e coi luoghi, e che suona molto “americano” – abbia ancora più senso. Ora dimmi: è tutto un mio trip, o c’è qualcosa di vero?
Tipo le Tre Cime di Lavaredo come il Monte Rushmore? Non so, non saprei, ci devo pensare. Mi sa che Erto non c’entra un Casso, aha! Magari possono essere simili all’occhio ma sono montagne fatte di altre storie, pregne di sangue e sudore, anche se in effetti musicalmente mi sento più vicino all’America che all’Italia.