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L’avevo promesso e non vengo meno alla parola data, anche perché la cena di ieri sera è stata lauta e non ho alcun spirito di vendetta. “I, Daniel Blake” segna il ritorno di Ken Loach non tanto a Cannes, dove è praticamente ospite fisso, ma a un film che sappia coniugare impegno politico e prassi cinematografica, senza abbandonare al proprio destino la seconda a favore del primo. Storia di un paradosso – quello di un uomo che non può lavorare a causa di un infarto ma non ha neanche i punti necessari per accedere all’indennità, e di una ragazza madre che non ottiene dallo Stato alcun aiuto per crescere i suoi due bambini, ma deve ottemperare a ogni dovere sociale – il film di Loach non possiede la forza di alcuni dei titoli migliori della sua filmografia (“Riff-Raff – Meglio perderli che trovarli”, “Piovono pietre”, “Ladybird Ladybird”), ma dimostra una sincerità e una rabbia anche emotiva che non possono non coinvolgere lo spettatore. Nonostante alcune tirate retoriche tipiche delle sceneggiature di Paul Laverty, fedele sodale del regista britannico, “I, Daniel Blake” è una piacevole sorpresa, che potrebbe anche portare un premio al protagonista, lo sconosciuto ma apprezzabile Dave Johns.
Ieri, subito prima di imbattermi nel film di Loach, mi sono rifugiato in Debussy per assistere alla proiezione di uno dei titoli che compongono la selezione di “Un certain regard”, e me ne sono pentito. Per quanto non sprofondi mai completamente, la commedia “Omor Shakhsiya” – in inglese “Personal Affairs”– della regista israelo-palestinese Maha Haj galleggia sempre nelle acque della mediocrità: l’ironia si fa ben presto ripetitiva, il gioco delle parti in un mondo caotico e in guerra non trova mai una sua reale collocazione, e le scelte di sceneggiatura sono quasi tutte molto discutibili. Piacerà, però, perché nel mondo del cinema il “chi” fa conta spesso molto più del “cosa” si fa, e una regista che racchiude in sé sia un’anima araba che israeliana non passa inosservata…
Ma inutile spargere troppa acrimonia verso un film che si dimenticherà in fretta e furia quando gli occhi sono ancora pieni di un grande capolavoro. Stamattina infatti è stato presentato nella Quinzaine des réalisateurs “Neruda”, il nuovo film di quel Pablo Larraín che si conferma uno dei più grandi registi in attività; nel mettere in scena il tentativo di fuga di Pablo Neruda dal Cile dopo la messa al bando del Partito Comunista e dei suoi attivisti da parte del regime di Videla, Larraín abbandona qualsiasi riferimento al biopic per lanciarsi in una riflessione – anche molto divertente, a tratti – sul potere, sull’arte, sui compartimenti stagni della narrazione e sul desiderio di conquistare e di essere conquistati. Opera magniloquente nonostante una messa in scena come al solito piuttosto parca, “Neruda” è un colpo di genio continuo, la dimostrazione che il cinema può ancora creare dal nulla ed elevarsi a pochi passi dalla filosofia, e senza neanche fare troppa fatica. Rimane il mistero del perché sia stato escluso dal concorso ufficiale, dove per esempio ha trovato collocazione il deludente “Ma Loute” di Bruno Dumont, nel quale il regista francese ha ribadito i punti fermi della sua poetica trasfigurandoli attraverso l’arma del demenziale (come in realtà già avveniva nella miniserie televisiva “P’tit Quinquin”, vista proprio qui a Cannes due anni fa); qualche gag ben assortita ma ripetuta fino allo sfinimento, e una libertà creativa apprezzabile ma meno ispirata del solito. Deforme ma anche troppo sgraziato. E non volutamente.
Due parole due anche su Cannes Classics, la sezione che ospita i restauri e i recuperi di pellicole del passato: oggi passavano tre gemme misconosciute come “Die letzte Chance” (1946) dell’austriaco (ma residente in Svizzera per fuggire al nazismo) Leopold Lindtberg, “Farrebique” (1946) del francese Georges Rouquier e “Momotaro, umi no shinpei” (1945), film d’animazione giapponese diretto da Mitsuyo Seo e prodotto per fare propaganda bellica nella Seconda Guerra Mondiale. Un modo per rifarsi gli occhi, sempre.