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Sulla Croisette arriva il bel tempo, ma purtroppo la giornata si inaugura con una delle delusioni più cocenti, per quanto nell’aria. “Handmaiden” (il titolo originale in coreano recita “Agassi”, ma non fatevi sedurre: con il grande pazzoide del circuito ATP non ha niente a che vedere) di Park Chan-wook è un’operazione tutta forma e zero sostanza, con una regia che trasuda eleganza a ogni fotogramma senza però scalfire mai una superficie traslucida e accecante. Nel senso che si preferirebbe chiudere gli occhi (e magari dormire, vista l’alzataccia fatta per vederlo). Melodramma pseudo-erotico e pseudo-femminista – e forse anche pseudo-melò – “Handmaiden” è un film furbo e laccato, anodino nel suo sviluppo e privo di qualsivoglia interesse; che fine abbia fatto il regista della “trilogia della vendetta” è un mistero fitto fitto, al quale nessuno sa dare una risposta chiara. Peccato.
La noia e i malumori per l’alzataccia lasciano il posto, fortunatamente, a uno di quei titoli che ti riconciliano con la bellezza del mondo, il passare delle stagioni, il caldo, il freddo, la fame, la sete – ad libitum. “The BFG”, ovvero “Il GGG”, ovvero il grande gigante gentile è un racconto di Roald Dahl che ha fatto il giro del mondo: Steven Spielberg lo segue con una certa fedeltà, ma poi riesce anche ad aggiungervi una lettura personale intrisa della propria poetica, sfondando il muro del racconto per i bambini in età prescolare e volando alto, altissimo, tra memorie di sogni, traumi, e una melanconia persistente che fende l’aria come un coltello. Girato con la consueta maestria, “The BFG” non sarà forse all’altezza dei capolavori di Spielberg, ma è un’opera sublime, viaggio nel fantastico che è racconto d’amore e d’amicizia di una purezza incrollabile. Da noi uscirà il 1 gennaio, con “soli” sette mesi di ritardo. Continuiamo così, facciamoci del male.
A farsi del male è invece la selezione di Un certain regard, finora la peggiore degli ultimi anni: la triste tendenza è stata confermata ieri da una doppietta che, col senno di poi, sarebbe stato lungimirante abbandonare al proprio destino. “Fuchi ni tatsu” (letteralmente “in piedi sul bordo”, ma venduto a livello internazionale con il titolo “Harmonium”) segna il ritorno alla regia di Kōji Fukada a solo pochi mesi di distanza dall’interessante “Sayonara”, visto prima a Pusan e poi a Rotterdam: Fukada continua il suo percorso nel dolore intimo e nel senso di colpa, ma stavolta non riesce a cogliere nel segno con particolare forza. La storia di Toshio e Akie, e del dolore privato che devono riuscire a superare ed elaborare pare troppo programmatica, chiusa in una struttura bipartita rigida e a tratti soffocante. Resta l’affascinante minimalismo della messa in scena e la splendida interpretazione dei protagonisti, ma non molto di più.
Ancor meno convincente – o altrettanto deludente, fate un po’ voi – si è dimostrato “The Transfiguration”, ennesima riflessione sul vampirismo diretta dall’esordiente statunitense Michael O’Shea: i punti di riferimento (“Martin” di George A. Romero, “Nadja” di Michael Almereyda, “The Addiction” di Abel Ferrara) sono evidenti e palesati anche dallo stesso regista, ma non basta questo impulso cinefilo a far digerire una storia già vista e metabolizzata, in cui l’horror è trasfigurato attraverso un racconto metropolitano fatto di cruda realtà e nessuna evasione fantastica. Le buone intuizioni vengono per lo più vanificate da uno sguardo anonimo, perfino sterile rispetto al materiale a disposizione. Di fronte a una selezione così dimenticabile, e all’ottimo lavoro portato a termine invece alla Quinzaine des réalisateurs (negli occhi ancora il mirabolante “Neruda”), viene naturale porsi qualche interrogativo sulla tenuta effettiva del festival. Vedremo…