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A Cannes l’accreditato stampa ha tre possibilità: è in sala, è a scrivere sul pc, o è in fila. Certo, c’è anche l’aspetto del nutrimento, con la sala mensa del Palais che sta diventando il rifugio abituale di una larga schiera di donne e uomini con badge al collo, ma quello è un altro discorso. Il fatto che i tempi della vita festivaliera siano scanditi dalle file non deve stupire nessuno: si fa la fila per entrare nell’area del festival (con gli addetti al controllo che hanno aumentato le “perquisizioni” per dimostrare alla popolazione di avere la situazione in mano), per andare al bagno e ovviamente per raggiungere le sale. In queste occasioni è possibile leggere sui daily distribuiti in maniera copiosa ciò che passa al Marché e quel che entrerà in produzione nei prossimi mesi (forse): e la mente vola già lontana, magari al Cannes del 2019, o a film che in realtà non verranno girati mai. Potere della suggestione…
Ci sono in effetti titoli che sarebbe stato meglio non girare mai, ed è difficile trovare una spiegazione al fatto che Nicole Garcia (a Cannes in concorso con “Mal de pierres”) faccia di mestiere la regista. Ma tant’è, sorvoliamo anche su questo aspetto, perché alla Quinzaine des réalisateurs è stato presentato il delizioso “Ma vie de courgette”, film d’animazione a passo uno (con personaggi in plastilina) diretto da Claude Barras. Se il regista era noto agli addetti ai lavori per il mediometraggio “Patate” e il corto “Au pays des têtes”, il nome più grosso coinvolto nell’operazione è quello alla voce sceneggiatura: Céline Sciamma è infatti una delle autrici di punta del cinema francese di questi ultimi anni, come dimostrano “Naissance de pieuvre”, “Tomboy” e “Diamante nero”. “Ma vie de Courgette” è un dolce e doloroso viaggio nella realtà delle case/famiglia per bambini orfani, maltrattati o con i genitori in prigione. Senza rinunciare ad alcuni passaggi duri, e con un’aura di tenera mestizia a dominare il tutto, Barras riesce nel delicato compito di costruire una narrazione adatta anche ai più piccini. Un’operazione arguta, condotta con eleganza e ricca di inventiva, che conferma una volta di più lo stato di forma dell’animazione d’Oltralpe.
Mentre si moltiplicano le proiezioni imperdibili di Cannes Classics (bisognerebbe avere il dono dell’ubiquità: non sono riuscito purtroppo a vedere di nuovo lo splendido “Ikarie XB 1” di Jindřich Polák, sci-fi cecoslovacca del 1963), è arrivato finalmente il momento di regalare fino in fondo il cuore a uno dei film del concorso. “Paterson” di Jim Jarmusch era ovviamente uno dei titoli più attesi della competizione, ma le conferme sono sempre da accogliere con gioia. Il regista statunitense gira in tutto e per tutto un film “jarmuschiano”, a partire dall’ambientazione, una cittadina del New Jersey dove tutto – forse – è collegato. Il merito? Della poesia… Il lirismo minimale di Jarmusch si lega a un’ironia sublime, e a una messa in scena di purezza rara. Bellissimo.
Per concludere la serata mi sono allontanato dalle proiezioni del festival per raggiungere una delle sale che proietta i film di AciD, sezione completamente esterna che difende il cinema indipendente francese. Lì è stato possibile vedere il nuovo film di Sébastien Betbeder, uno dei registi più interessanti e originali messosi in luce in Francia negli ultimi anni. “Le Voyage au Groenland” racconta la visita di Thomas e del suo migliore amico – che si chiama Thomas a sua volta – al padre, che si è trasferito da anni a vivere nel microscopico villaggio di Kullorsuaq, nel nulla di ghiaccio della Groenlandia. Episodico e lirico, divertente e commosso, il film di Betbeder conferma una volta di più il talento di un regista che meriterebbe ben altre attenzioni, in patria come all’estero.