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Scavallata la metà del festival, sulla Croisette iniziano le ovvie indiscrezioni sui possibili vincitori. C’è chi per rafforzare la propria tesi annuncia sibillino di “aver saputo che…”, chi si rifà a ciò che è accaduto nelle edizioni passate, chi si affida alla cabala, chi semplicemente spara a caso i titoli dei film che ha preferito. A questo punto, insomma, praticamente ogni opera presentata in concorso sembra possedere i galloni per puntare al trionfo, quella Palma d’Oro che per molti equivale a entrare in modo definitivo e duraturo nel gotha del sistema-cinema mondiale.
Proprio tra i titoli in concorso ho dovuto operare delle scelte, in questi giorni, che mi hanno portato anche a delle rinunce, quasi mai dolorose a dire il vero: rientra tra queste anche “Julieta” di Pedro Almodóvar, regista che per quanto mi riguarda da decenni ha perso il senso della messa in scena e arranca tra un melodramma ipertrofico e una commedia iper-colorata, senza mai trovare davvero un motivo credibile per le storie che racconta. Chi l’ha visto ha lanciato strali contro il regista spagnolo – e tra questi anche alcuni appassionati cultori: qualcosa vorrà pur dire… –; io ho preferito raggiungere ancora una volta la sala del Marriott per vedere uno dei film selezionati alla Quinzaine des réalisateurs, “Fiore” del compatriota (e per quanto mi riguarda concittadino) Claudio Giovannesi. Storia di una minorenne detenuta in riformatorio per rapina, e del suo difficile adattamento a una situazione di costrizione, “Fiore” è un film libero, non particolarmente coeso in fase di scrittura ma capace di slanci emotivi che coinvolgono lo spettatore, facendolo aderire con sincerità con ciò che avviene sullo schermo. L’ultima parte del film, in particolare, cresce in maniera continua, fino a esplodere in un finale persino commovente. Giovannesi deve ancora trovare la misura delle cose, ma la strada intrapresa è quella giusta.
Se Almodóvar ha lasciato fredda la platea del Grand Théâtre Lumière, a scaldarla ci hanno pensato i membri della delegazione di “Aquarius”, altro film in concorso diretto dal brasiliano Kleber Mendonça Filho, qui all’opera seconda, inscenando una protesta – e una richiesta d’aiuto – per accentrare l’attenzione sul tentativo di golpe militare in atto in Brasile, fatto passare anche da buona parte della stampa occidentale come impeachment verso la presidente Dilma Rousseff. Anche “Aquarius” è un film che vorrebbe ragionare sul Brasile, sulla politica, sulla memoria di dittature e via discorrendo, ma Mendonça Filho perde per strada buona parte delle intuizioni, smarrendosi in un racconto tirato eccessivamente per le lunghe (quello della durata eccessiva è un problema diffuso, quest’anno). Bravissima comunque Sonia Braga, che dirà senza dubbio la sua per la Palma alla migliore interpretazione femminile.
Non dirà invece un granché alla giuria (almeno è quel che spero) il filippino Brillante Mendoza, che da anni non colpisce nel segno – “Lola” e “Kinatay”, entrambi del 2009, sono gli ultimi bagliori della sua filmografia – e che con “Ma’ Rosa” non fa che ripetere ossessivamente i punti salienti della sua poetica. Ancora le baraccopoli di Manila, ancora la polizia corrotta, ancora la violenza nelle strade; tutto meccanico, senza vita, senza una reale spinta creativa. In sala, in serata, non erano in pochi a dormire. Difficile dar loro torto.