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Beirut è una citta divisa, tormentata. Una città bellissima e ricca di contraddizioni, una di quelle città da amare e odiare allo stesso tempo.
Stretta tra le montagne e il mare, tra il mondo arabo e quello mediterraneo. Una parte guarda all’Occidente, l’altra all’Oriente. Racchiude in sé tanto Damasco e Teheran, quanto Parigi.
Negli anni ‘50 e ‘60 le élites arabe andavano a Beirut per il mare, le banche, il cibo, le belle donne. Per i locali notturni e per la musica. Musica araba tradizionale, ma spesso contaminata dal jazz che la borghesia libanese aveva imparato ad amare dai francesi.
Nel secondo dopoguerra le cantanti Fairuz e Sabah spiccavano tra le dive assolute del mondo arabo. La loro popolarità era rivaleggiata solo dall’egiziana Oum Kalthoum.
Per capirci, neanche Mina ha mai raggiunto da noi il livello di devozione di cui godono Fairuz e Oum Kalthoum nel mondo arabo.
Anche oggi, se vi dovreste trovare a prendere un taxi in una qualsiasi città del Medio Oriente, potete essere quasi certi di sentire alla radio una delle loro canzoni. “Fairuz al mattino, Oum Kalthoum alla sera,” è un mantra ripetuto dagli innumerevoli autisti che mi hanno accompagnato nei miei anni in Medio Oriente.
Negli anni ‘60, è stata la volta del folk in chiave araba, esemplificato magistralmente da Marcel Khalife, cantautore e virtuoso di oud, una specie di liuto.
Poi la guerra civile, quando i dischi rock e metal andavano a ruba. I Rolling Stones erano talmente popolari che quando nel 1978 hanno cancellato un loro concerto a Beirut per motivi di sicurezza, i giovani libanesi scesero in strada per sfogare la propria rabbia, incuranti della guerra in corso.
Negli anni ‘90, finita la guerra civile, è stato sempre il Libano – più liberale rispetto ai vicini – a far emergere le prime pop-star moderne fornite di silicone, vestiti succinti e video tanto assurdi quanto espliciti. Di nuovo, se fate il nome di Haifa Wehbe a qualsiasi tassista mediorientale, vedrete immediatamente il suo sguardo perdersi in qualche languida fantasia.
Dalle rovine della guerra civile, però, è emersa anche una generazione di giovani musicisti che volevano scappare dagli orrori di quel conflitto. Una generazione che aveva molto da dire e da dirsi, ma che faticava a trovare un modo proprio per farlo. Bravissima Fairuz, tutto il rispetto per la musica tradizionale, ma era troppo limitante. Allo stesso tempo, non si poteva copiare quello che arrivava dall’estero. In un paese afflitto da una crisi identitaria endemica, quella musica non aveva radici.
E poi arrivarono loro. Basso profondo. Batteria elettronica. Synth Roland che accenna una scala orientale, simile al fraseggio di un flauto in una composizione sufi, la musica sacra-popolare araba che porta a ballare fino all’estasi mistica.
La voce che fa il verso a Oum Kalthoum e Feiruz, ma con un suono dark e malinconico che arriva diretto allo stomaco.
Base trip-hop e parole di una vecchia canzone d’amore araba. E’ questa “Enta Fein”, “dove sei”, la canzone simbolo dei Soap Kills. Il duo libanese di “trip-hop à l’orientale” che ha dato il via alla scena alternativa libanese. Una scena ricca di gruppi di musica elettronica, rock, indie, jazz-core e hip hop.
I Soap Kills si sono formati alla fine degli anni ‘90 e si sono sciolti a metà degli anni zero, ma hanno dato il via a un mondo underground libanese pieno di etichette discografiche, radio, locali e band. Tante band.
Zeid Hamdan e Yasmin Hamdan – che non sono parenti a dispetto del cognome – hanno preso strade diverse. Lei è diventata una pop star a metà strada tra mainstream e scena alternativa, ed è anche apparsa in una scena dell’ultimo film di Jim Jarmusch, “Only Lovers Left Alive”. Zeid ha invece continuato ad animare la scena musicale libanese in qualità di musicista e produttore, diventando una sorta di padre-padrone e padrino di quel mondo.
Dal Libano oggi si segnalano soprattutto i Mashrou’ Leila. Il progetto notturno – questo il significato del nome – di sei studenti di architettura che al terzo album riempiono ormai festival e sale da concerto ovunque in Medio Oriente e in Europa, tanto da guadagnarsi la copertina del Rolling Stones nel 2014. Imparata la lezione dai Soap Kills, i Mashrou’ Leila mischiano rock alternativo e sonorità mediorientali e balcaniche. I testi sono vere e proprie poesie piene di satira e liricismi che colpiscono per i temi. Altro che canzonette su amori romantici e adolescenziali. I Mashrou’ Leila cantano di politica, razzismo, religione, identità araba moderna, nazionalismo e diritti LGBTQ. In arabo.
Ed è tutto partito da una base trip-hop e parole di una vecchia canzone d’amore araba.
(Alessandro Accorsi)