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Ironicamente ribattezzati “Punk Floyd” dalla stampa britannica, quando al loro debutto approdarono, nel 1977, alla corte della Harvest, creata nel 1969 dalla EMI che in quegli anni era appunto impegnata nella produzione dei Pink Floyd, i Wire si ripresentano al grande pubblico con questo “Nocturnal Koreans” (Pink Flag) che spazza via i dubbi e gli intoppi delle sessions di “Change Becomes Us” (Pink Flag, 2013), al cui superamento aveva contribuito in buona parte già l’omonimo “Wire” del 2015, preparando il terreno in grande stile.
A 39 anni da quel “Pink Flag” che diede l’avvio ad uno dei percorsi più sconvolgenti della fine dei ‘70, e non solo, i pionieri del post-punk inglese si riaffacciano sulla scena con un nuovo album che strizza l’occhio al trittico iniziale – “Pink flag” (1977), “Chairs missing” (1978) e “154” (1979) – riproponendo quel carattere scostante e nervoso, affilato e preciso, acido, tipico della furia iniziale della band, la quale seppe filtrare le istanze frenetiche e rabbiose del punk in una dimensione intellettualmente più articolata, e che ora ripresenta il tutto all’interno di un sound più corposo, denso, che anima lo spazio in un tessuto ambient talvolta perforato dalla furia, talvolta dilatato all’estremo.
Otto tracce. Otto tracce per ricordare al mondo che la band di Colin Newman è sempre in tiro. Otto tracce caratterizzate da una sensazione di indeterminatezza che ne acuisce il carattere misterico, laddove l’alternanza di sferzate acide e spigolose rompe l’atmosfera calando le note di una conflittualità stridente e spiazzante, capace di sorprendere per inventiva ed energia creativa. La sensazione di fragilità dell’architettura sonora completa il tutto, amplificando l’atmosfera sospesa e, di rimando, i repentini cambi di fronte, contrastanti e spiazzanti.
70/100
(Francesco Aprile)