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Per Beyoncé e una setlist in cinque atti più encore di oltre trenta brani si fa anche questo. L’idea di trascinarsi a San Siro in piena estate per un mega-evento rappresenterebbe uno scoglio non da poco. Basta scivolare nella metro per mischiarsi al prevedibilmente giovane pubblico. Qualche mamma accompagnatrice che non sa nemmeno pronunciare il nome della protagonista della serata. E del resto quante delle vostre conoscono una sua canzone? Minorenni che dopo questo concerto, “posso non vederne altri nel resto della mia vita”. Altri che dopo il concerto di Rihanna di qualche giorno prima e dopo questo concerto “posso non vederne altri nel resto della mia vita”. Altri ancora che dopo questo concerto e, chissà un giorno, Kanye West, “potrò non vederne altri nel resto della mia vita”.
Tutto nella norma.
Non servono le fascette che vanno a ruba nei dintorni dello stadio per capirlo. Beyoncé è una delle artiste più popolari del mondo ed è giusto che a vederla ci vadano veramente tutti. Sorprende semmai il mancato sold out. Tagliandi ancora disponibili in biglietteria e risse, sfiorate e messe in atto, tra i bagarini, ma scene da raduno, a dirla tutta, contenute rispetto ai timori. Sorprende perché in altre parti del mondo i suoi biglietti si volatilizzano in poche ore. E forse la Knowles non ha quell’appeal di tanti altri nomi che hanno sbancato con meno difficoltà a San Siro con prezzi altrettanto alti. E sorprende la quasi assoluta predominanza di stranieri nelle prime file. Pochi milanesi imbruttiti, i BeySwag e i BeyHive sono un esercito eterogeneo che arriva da ogni parte del mondo, tra emulatrici, fanboy commossi, aspiranti sosia, travestimenti e un clima di rara educazione per un evento di massa. I tre opening act sono accolti con rispetto. Tutti a diverso titolo legati al mondo della sua Parkwood Entertainment. Senza big name. La più navigata Ingrid fa da baby sitter e intermezzo tra Sophie Beem e il duo Chloe X Halle, tutte nate, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila. Come molti dei presenti. Pretendere che si ricordino delle Destiny’s Child sarebbe troppo. Destiny’s Child che la signora Knowles non perderà l’occasione di tributare con “Independent Women Part. 1”, un accenno di “Bootylicious” e nel bis con il tormentone “Survivor” cantato a squarciagola forse anche dalla security, con tanto di posa finale con il saluto a pugno chiuso del Black Panther Party. Pretendere che intere generazioni vadano oltre la maglia crop-top di Beyoncé con scritto “Feminism” a caratteri cubitali e si avvicinino al femminismo radicale afroamericano sarebbe eccessivo. Ma magari è un buon inizio, come ha dimostrato il sesto e ultimo, acclamatissimo, album “Lemonade”, un manifesto di emancipazione femminile tra autobiografia, soap opera, musical, 2.0 e socio-politico, come solo lei poteva regalare.
Inevitabilmente la maggior parte dei brani arriva da qui. Sette per l’esattezza, dalla travolgente onda d’urto d’apertura di “Formation” che accoglie Beyoncé e il suo seguito davanti a una gigantesca torre ledwall. Da “Formation” prende non a caso il nome il tour e l’impatto è davvero devastante. Il muro di basse è ai limiti, figlio del sound di quel “Beyoncé” che non aveva ancora presentato in Italia. Com’è logico, il pubblico generalista si sente più a suo agio negli scenari più rilassati “Hold Up” e “Sorry”, così come negli sfoghi rock più da stadio di “Don’t Hurt Yourself” e “Daddy Lessons”. Sempre dal nuovo, non manca il pezzo che preferisce cantare più di tutti gli altri, come ammette, “All Night”, con quel sample da “SpottieOttieDopaliscious” che ha fatto la storia e fa sempre sognare. Sorridente, sobria anche nei momenti in cui basterebbe davvero poco per trasformare il tutto in una pacchianata senza eguali, Beyoncé fa quello che deve fare. Cantare, muoversi, ballare, accompagnata da un corpo di ballo dal rigore quasi militare. I ritmi sono serratissimi, i brani non durano più di tre o quattro minuti, nonostante i vari cambi di abito e scenografia, e la divisione in atti. Una continua altalena temporale che la riporta agli albori della sua carriera solista con l’intramontabile “Crazy In Love” e la super hit “Baby Boy”, e poi ancora “Irrepleceable” e “Ring The Alarm”.
Nessun ospite, la presenza del consorte Jay Z (avvistato da qualcuno in centro) aleggia, ma non si manifesta. Con lei oltre alle ballerine, solo quattro coriste, defilate, ma decisive in molti intermezzi, sulla parte sinistra del palco. Gli intermezzi sono tanti, così come le reprise di nuovi tormentoni come “Feeling Myself” di Nicki Minaj e un piccolissimo spezzone di “Panda” del protetto di Kanye West, Desiigner. Tutto senza respiro. Anche nelle ballad strappalacrime come la conclusiva “Halo”, in una versione mozzafiato, al pari del gospel contemporaneo di “Love On Top” (a capella, altro che playback), la Knowles riesce a non suonare mai stucchevole. La scaletta ha equilibrio proprio nel pesare tutti i momenti, senza cali di tensione né particolari colpi di scena. Non si dilunga, coinvolge il pubblico senza mai esagerare, ringrazia con sobrietà. Il resto lo fa la sua presenza scenica. Facile. I brani di “Beyoncé”, un altro dei suoi capolavori, quello che ha accontentato come mai in passato il pubblico mainstream, e quello più indipendente modaiolo, lasciano sempre il segno: “Flawless”, “Yoncé” e “Drunk In Love” trasformano la situazione in un party. E qualcuno rinuncia persino all’incontenibile frenesia da foto e video con smartphone, in questo caso giustificabile più di tante altre occasioni, è bene ammetterlo.
C’è un liturgico momento di saluto a Prince con “The Beautiful Ones” e “Purple Rain” messe su con il palco vuoto e lo schermo che diventa viola, in onore del maestro.
Difficile scegliere il momento più alto dello sfarzoso show di Beyoncé. Da ricordare e raccontare, anche senza il bisogno di un’improbabile comparsata di Kendrick Lamar, “Freedom” con quel suo incedere marziale e il balletto robotico che si trasforma in un ballo liberatorio in una pozzanghera, l’acqua arrivata da chissà dove diventa lo strumento di una coreografia con i suoi schizzi coordinati con il solito rigore da parata militare. Un trionfo di dignità e sensualità femminile nella sua accezione esteticamente più alta.
“Freedom” diventa emblema e manifesto del pirotecnico mondo di Beyoncé dove gli eccessi non disturbano, dove la denuncia sociale si mischia al fashion senza risultare irritante e dove essere pop risulta essere di una qualità assai rara rispetto a tanta musica d’autore dei nostri giorni.
Act 1
Formation
Sorry
Irreplaceable
Bow Down
Run the World (Girls)
Act 2
Mine
Baby Boy
Hold Up
Countdown
Me, Myself and I
Runnin’ (Lose It All)
All Night
Act 3
Don’t Hurt Yourself
Ring the Alarm
Independent Women Part 1
Diva
***Flawless
Feeling Myself
Yoncé
Drunk in Love
Rocket
Partition
Act 4
Daddy Lessons
Love On Top
1+1
Act 5
Crazy in Love / Bootylicious
Naughty Girl
Party
Encore
Freedom
Survivor
End Of Time
Halo