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Di preoccupazioni ne hanno avute tante in questi ultimi anni i Preoccupations. Costretti ad annullare concerti, rilasciare centinaia di interviste che avevano poco a che fare con la musica. Soprattutto, sono stati costretti ad abbandonare quel vecchio nome scomodo, Viet Cong, causa di tutti i loro problemi recenti.
Un nome scelto quando i vecchi membri dei Women, formato il nuovo gruppo, avevano già iniziato a girare per locali del freddo Canada suonando nuova musica e avevano bisogno di qualcosa da mettere sui volantini. I Viet Cong per loro erano semplicemente i cattivi dei film di guerra e loro volevano spaccare culi.
E ne spaccano, se non fosse che fuori dai confini canadesi quel nome sollevava talmente tante polemiche da rischiare di travolgerli. La questione del nome aveva raggiunto il punto in cui i paragoni musicali con i Joy Division avevano lasciato spazio ad una discussione – alquanto paradossale – sulla scelta del nome. I bordelli nazisti si e i comunisti vietnamiti no?
Scegliere un nuovo nome e tornare a parlare di musica, finalmente, deve essere stata una liberazione. Tornare a suonare con un nuovo album in uscita a Settembre, deve esserlo stato ancora di più.
Per questo i Preoccupations si sono imbarcati in un mini-tour con una manciata di date tra Stati Uniti, Canada, Olanda, Parigi e Londra.
Locali piccoli e intimi in cui suonare davanti a pochi fan prima di un tour autunnale già annunciato che li vedrà calcare palchi molto più grandi. Quando accendono gli amplificatori allo Shacklewell Arms, pub di riferimento per la musica alternativa a Londra, la minuscola sala contiene poco più di un centinaio di persone, stipate e dondolanti al ritmo ipnotico dei loro pezzi.
Il locale è talmente piccolo, il batterista semi nascosto dietro una struttura in cartapesta che nasconde il deposito con i fusti di birra, che sembra più di essere in una sala prove sgangherata che ad un concerto.
In effetti, nonostante siano alla fine del loro mini-tour e abbiano già suonato la sera prima a Londra, l’inizio del loro set di un’ora scarsa serve più ad aggiustare suoni, livelli ed effetti che a colpire per la precisione dell’esecuzione.
Si inizia con Select Your Drone, dal loro EP di debutto, per poi tuffarsi subito nella hit che li ha resi famosi, Continental Shelf. Suonata così per seconda, mentre i due chitarristi ancora continuano a smanettare con i pedalini e la strumentazione, visibilmente insoddisfatti di come suona, sembra un modo per togliersela subito dai piedi.
La resa non è delle migliori, i passaggi tra chitarre e synth non sono fluidi e inizio ad essere io quello preoccupato. Il locale angusto non aiuta, soprattutto per i livelli dei volumi, l’incrocio tra dissonanze fa fatica ad emergere creando quel suono distintivo che ha reso i Preoccupations quelli che sono.
E’ durante il nuovo singolo Anxiety che le cose iniziano a migliorare. Dal vivo il pezzo è ancora più dark e claustrofobico di quanto non sia sul disco. I synth e le chitarre creano strati di suoni e rumori angoscianti, mentre la voce del cantante recita una nenia quasi sussurrata e il batterista da ritmo all’intera processione. Gli esperimenti con i synth e i suoni continuano nel pezzo successivo, Degraded, anche questo dal nuovo album. Continuano, però, anche alcuni problemi tecnici con i pad del batterista, le chitarre e un fonico che suda sette camicie per tenere tutto insieme.
Poi, finalmente, come per magia i Preoccupations si gettano in una versione di March of Progress da paura. Come se avessero finalmente finito il sound check, si fanno perdonare immediatamente per l’inizio stentato.
E’ il batterista, preciso, potente e subito idolo di tutti i presenti, a lanciare la carica. I suoni, l’ipnosi, la nenia, le dissonanze, gli strati di suono iniziano a funzionare ipnotizzando tutti.
Da li, si vola su una versione tiratissima del loro anthem indie Silhouettes che fa scoppiare la sala svegliandola dall’ipnosi, per poi rigettarcela subito dopo con Memory, un altro pezzo estremamente dark dal nuovo album.
Si chiude con una versione epica da quasi venti minuti di Death. Non sarà forse il loro miglior pezzo, ma è quello che più di tutti rappresenta una sorta di manifesto del gruppo. Rullate e pattern di batteria post-punk, cattivi e ossessivi, arpeggi de-costruiti, noise, chitarre gracchianti, melodie indie. Un classico “ooooooh” che lascia spazio ad un coro urlato e rabbioso ma intimo.
Lasciati soli davanti ad un muro di feedback dopo quasi venti minuti di canzone, il pubblico perdona l’inizio stentato e rimane li, impalato, sperando in un bis e con tanta voglia di rivedere questi Preoccupations.
Chiamateli come vi pare, ma sono tornati a spaccare culi.
(Alessandro Accorsi)