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Su Kamasi Washington ho sempre sentito pareri discordanti, fin dall’uscita del suo album, The Epic, nel 2015 (il primo uscito per Brainfeeder, etichetta di Flying Lotus). C’è chi crede che sia un genio, chi un’impostore. Sono partita prevenuta lo ammeto. ‘Questo genere non mi piacerà mai’. Ho evitato di ascoltare l’album per mesi, seguendo il gregge degli scettici. Poi per curiosità l’ho ascoltato anche e soprattutto per cercare di capire il ‘fenomeno Kamasi’, sold-out in metà Europa ed elemento fisso in quasi tutti i festival estivi di questo 2016. Un genio? non lo so (rimane il fatto che è un musicista che ha collaborato, tra gli altri, con Kendrick Lamar, Lauryn Hill, Nas, Snoop Dogg, Chaka Khan, Flying Lotus, Thundercat). Un impostore? non credo proprio. Non ha inventato nulla, questo è certo. Eppure credo che ci sia un qualcosa di nobile in quello che fa: il proporre un genere, il jazz, che, soprattutto in diverse parti d’Europa, è considerato come un ‘genere minore’ anzi, meglio, un genere ‘per pochi’, antico per molti, ad un pubblico più ampio e giovane che mai avrebbe ascoltato un disco jazz nel 2016. Gliene do atto, per me aveva già vinto qualche settimana fa al Way Out West in Svezia, dove, uscita dal pit dopo i primi 3 pezzi, avevo notato tanti ragazzini dai 25 anni in giù ascoltarlo affascinati.
Non contenta del misero ascolto in terra scandinava, appena venuta a conoscenza delle 3 date italiane mi avvicendo a raggiungere quella più vicina, all’Anfiteatro Del Venda. Non potevo fare scelta più azzeccata. La bellezza del posto ripaga la fatica (in chilometri e in traversata a piedi) per raggiungerlo. Oltrepassata un’impervia salita infatti ci si ritrova immersi nella natura, quasi totalmente incontaminata, tolto un piccolo palco di legno a forma di mezzaluna, senza transenne ne impalcature, alle cui spalle si possono ammirare le colline padovane e il live di Kamasi si sposa bene con l’atmosfera onirica del paesaggio. Fin dalle prime note inconfondibili del suo sassofono infatti il pubblico rimane estasiato. In anni ed anni di esperienze di live visti e vissuti in Italia non ho mai visto un pubblico così attento e soprattutto silenzioso, quasi stesse assistendo ad un rito, il rito di Mr. Washington. Le due ore di live scivolano via piuttosto veloci, passando da pezzi più conosciuti come ‘Cherokee’ a momenti di pura improvvisazione della band. L’incantesimo si spezza con la sua voce suadente e quasi timida, che annuncia la fine del concerto e l’invito a scambiare due chiacchiere al banchetto del merch. Risvegliata all’improvviso quindi l’Arena (sold-out) si risveglia. 600 persone si alzano in piedi e chiamano di nuovo Kamasi, intonando uno dei suoi pezzi e lì comincia la magia finale, con la band sorridente che attacca il pezzo insieme al pubblico che balla al ritmo del suo jazz sincopato. Lo ammetto, è stato emozionante anche per me. La serata finisce così, a parlare di alieni e stelle con Kamasi e la sua band e non potevo far altro che pensare che sì, un alieno l’avevo visto quella sera, era sul palco che suonava. Aveva gli occhi grandi e sinceri e aveva in mano un sassofono.