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In media a Göteborg in un anno piove un giorno su tre e puntualmente arriva l’immancabile pioggerellina a trasportarci nel cuore dell’autunno. Non ci si perde d’animo anche perché, dopo lo show acustico mattutino di un’altra icona svedese, José Gonzalez, la programmazione giornaliera si apre con uno degli artisti più attesi e chiacchierati del momento. Difficile trovare un album pop/hip hop/rnb senza un feat. di Anderson .Paak. Il vocalist, batterista, producer californiano inizialmente messo a suonare in una delle venue notturne, è anticipato di ore. E la sua presenza aiuta a smuovere la gente già a ora di pranzo quando il trentenne guadagna il palco con la sua band. Si capisce subito che il suo sarà uno dei live top del weekend. Rappa, balla, scivola sul pavimento bagnato del palco Azalea, coinvolge la gente, fa il D’Angelo, fa il Kendrick, canta suonando la batteria. Suona la batteria cantando. Un’ora di vibrazioni black calde, autentiche che mettono il luce il suo talento. “Malibu” è tra i dischi dell’anno e ogni brano è potenzialmente un singolo mainstream. Anderson si permette anche di cantare un brano di Kaytranada in cui ha offerto la sua voce, “Glowed Up”, tra i brani top di quest’anno. Senz’appello.
Si resta in California per un altro show 100% black, ma di tutt’altro tenore. Kamasi Washington, il sassofonista jazz che ha avvicinato il mondo indie a quel genere così adulto e ostile, regala un set molto irrequieto, free e danzereccio. Fa strano ascoltare del jazz a un festival incentrato su sonorità agli antipodi di Kamasi. Il risultato è comunque vincente. Anche gli ascoltatori random sono letteralmente ipnotizzati. Soliti cambi di atmosfera bruschi, mentre il belloccio cantastorie James Bay manda in visibilio orde di adolescenti in attesa nelle prime file del Flamingo già da un paio d’ore. Nel quarto palco, il Dungen, arriva un’altra ipnosi dal profilo più contemporaneo. Floating Points con la sua band regala un momento introverso e ambientale che fa da sottofondo perfetto a un grigio pomeriggio di pioggia.
Cartellone molto denso e non può mancare l’hip hop. Finalmente un nome americano, benché espressione del rap bianco della West Coast. G-Eazy si piace molto e piace molto alle ragazzine che si commuovono quando il ventisettenne di Oakland si avvicina alla transenna. Non a caso lo chiamano il James Dean del rap. “Runaround Sue”, la sua hit planetaria, ma non solo. In Svezia la gente ha bisogno di queste sonorità.
Si torna comunque subito nel tema del weekend, la musica d’autore femminile. Nell’unico palco coperto una folla silenziosa ed educata si raduna per il rito molto orchestrale e accademico di Julia Holter. Anche lei molto silenziosa e introversa, mette in mostra il suo talento compositivo cristallino. Un live sussurrato intimo che abbraccia l’ascoltatore in una morsa fredda, ma rassicurante. C’è tempo per un assaggio di Grace Jones, accolta da un diluvio che non aiuta, ma non fa perdere d’animo nemmeno i fan più avanti con l’età. Nascosta dietro una maschera e un travestimento tribale, la sessantottenne giamaicana si avventura in territori world sperimentali, tra afro e funk.
Subito dopo un’altra giovanissima artista, direttamente dalla Norvegia. Classe 1996, Aurora da queste parti, e in altre parti d’Europa, è già un’istituzione. Fa semplicemente pop. Quello che il pop dovrebbe essere nel 2016, con arrangiamenti elettronici molto sofisticati e curati, escursioni dance e melodie a presa rapida: una voce ammaliante e scandinava e un’innata propensione alla hit pop d’autore à la Florence & the Machine, o à la Ellie Goulding nei momenti più smaccatamente pop. La norvegese è un talento autentico. Voce, stile e presenza scenica. Chissà quando ce ne accorgeremo anche in Italia. Chissà quando avremo qualcosa di simile, in Italia.
Artiste femminili su artiste femminili. Jessy Lanza, incappucciata prova a scaldare i cuori sotto la pioggia battente. Ha un pubblico molto giovane, quindi tra poncho e k-way è comunque una festa. Ci sarebbe un’altra giovanissima icona pop svedese, la biondissima, neanche a dirlo, Zara Larsson. Ma chi è già stufo della pioggia, può prendersi un break sotto il tendone Linné dove sale sul palco un’altra nuova proposta scandinava, la svedese Nicole Sabouné, una sorta di Chelsea Wolfe nordica, molto nordica. Atmosfere dark, un sicuro passato da metal kid, chitarroni goth ed è subito inverno. Altro che autunno. La pioggia giova a The Tallest Man On Earth, la cui performance un po’ blanda è resa più emozionante e suggestiva dal rumore della pioggia che accompagna i suoi vecchi classici chitarra e voce. In Svezia è un’istituzione, i più sfortunati l’avranno visto già 5 o 6 volte. Ma almeno su di lui, in Italia non possiamo davvero lamentarci.
In una giornata dalla qualità e dal gusto contemporaneo così alto, deve arrivare anche un momento meno riuscito. E ci pensano The Libertines, in un live pantomima ai limiti del comico, ad abbassare il livello. Persino gli indie kid delle prime file non sembrano troppo coinvolti da una performance spontanea quanto buttata lì. La base ritmica suona, la premiata ditta Carl Barat/Pete Doherty sembra un duo ripescato da qualche commediaccia britannica d’altri tempi. Ci si ride su, in attesa della regina.
Molto meglio le chitarre di Robert Hurula Pettersson, molto più semplicemente Hurula, figura di riferimento della scena punk svedese di Umeå (la città dei Refused) e membro di Masshysteri e The Vicious, che nel suo nuovo progetto solista propone un indie rock semplice ed efficace. Cantato in svedese, echi emo, ritornelli molto viscerali, urlati e da amore a prima vista. Come si direbbe con poca eleganza, in poche parole, piscia in testa ai più noti colleghi britannici protagonisti sul palco principale. Data esclusiva svedese e per molti sembra un ulteriore prezioso regalo dal Way Out West.
Come vi abbiamo già raccontato da Barcelona, in occasione del Primavera Sound dove ha primeggiato senza discussione, PJ Harvey è l’headliner per certi aspetti più atteso del weekend. Non è accolta, bisogna ammetterlo da un bagno di folla, anche perché in contemporanea suona una delle giovani icone hip hop svedesi, il baldanzoso rapper di origine bielorussa Yung Lean. La lunga giornata di pioggia non aiuta i più stanchi che cercano di assaltare i mezzi pubblici per raggiungere le location notturne dello Stay Out West. Eppure PJ come sempre è sopra chiunque. In questo show dal fascino oscuro e funereo che sembra fatto su misura per la temperatura, le condizioni atmosferiche e il tema femminile dark del Way Out West 2016, regala un lunghissimo brivido lungo la schiena. La sua orchestrina noir è ormai rodata. Basta nominare John Parish e Mick Harvey, con una menzione d’onore per i nostri “Asso” Stefana ed Enrico Gabrielli. I brani del nuovo “Hope Six Demolition Project” sono di una bellezza e di un fascino tetro e avvolgente. Non mancano per i più appassionati una struggente “When Under Ether” da “White Chalke”, la rovente “50ft Queenie” in chiave Bad Seeds addirittura da “Rid Of Me”, i classiconi “Down By The Water” e “To Bring You My Love”. Così come lascia a bocca aperta il trittico da “Let England Shake”: “Let England Shake”, “The Words That Maketh Murder” e “The Glorious Land”. A quasi cinquant’anni, è ancora la dea del songwriting contemporaneo.
Ci sarebbe ancora lo Stay Out West con Whitney e LIIMA, ma vari ritardi ci intrattengono in giro sui mezzi pubblici. Per chiudere la giornata col sorriso sulle labbra c’è la nuova star pop Dua Lipa, ventunenne londinese originaria del Kosovo. Un altro esempio virtuoso di integrazione. Un’altra lezione. Il pubblico è giovanissimo per la storica indie venue del Pustervik. Una fauna molto diversa dai frequentatori più abituali del suggestivo club svedese. Ma va bene così.
Tutti ancora bagnati e soddisfatti.
Foto di Chiara Viola Donati (Instagram: @chiaraviolenta)