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Nick Cave è tornato. A soli tre anni da “Push The Sky Away”, ha appena pubblicato l’intenso, oscuro “Skeleton Tree”, registrato nei difficili mesi del lutto per la drammatica scomparsa di suo figlio Arthur, in quel di Brighton. Sedici album in studio a nome Nick Cave & the Bad Seeds dal 1984 a oggi per una delle parabole terrene più complesse ed esaltanti della storia della musica. Abbiamo provato, come da tradizione di Kalporz, a stilare una top 7, per celebrare l’inossidabile crooner di Melbourne. Non senza fatica.
7. Nocturama (Mute, 2003)
L’importanza di un’opera d’arte dipende il più delle volte dalla sua integrazione nel contesto tradizionale, storico e culturale di riferimento. Per esempio, un disco di Nick Cave che non suona immediatamente ed esattamente disperato, decadente e moralmente complicato non può dirsi un album riuscito, perchè trasgredisce le aspettative e si allontana dalla poetica di dannazione e redenzione in cui ogni fruitore vuole riflettersi. “Nocturama” del 2003, di Cave con The Bad Seeds è quasi universalmente considerato una schifezza, un episodio minore. Forse perché insegue con eccessivo slancio una direzione pop, perché cerca di sintetizzare aggressività narrativa e lirismo senza riproporre la tragica e commovente retorica del chiasmo o perché si concentra su suoni semplici, diretti, solo sporadicamente enfatici. Ma io in “Nocturama” ci sento tante cose vere: l’impeto, il divertimento, la stanchezza, il disagio, la paura e soprattutto l’irripetibile presenza di un uomo, di un artista, ormai feticcio dei propri fan e della propria proposta estetica, un clown che deve solo sfogare disperazioni e angosce, che deve tingersi i capelli di nero e mettersi il vestito da becchino, anche quando avrebbe voglia di dimostrare la sua vera età, la propria contraddittoria personalità e un po’ di realismo. In “Nocturama” Cave fa le cose senza prendersi troppo sul serio, si infila il completo nero di scena, poi mette su una maglietta o alla fine anche un pigiama. Tanto è notte. E prima o poi si deve anche andare a dormire.
(Giuseppe Franza)
6. Murder Ballads (Mute, 1996)
“Murder Ballads”, nel 1996, fu il mio modo per entrare definitivamente in contatto con il mondo musicale di Nick Cave. Non so se sia stato l’album più adatto: quando uscì sapevo qualcosa, ma non tutto, sull’artista australiano. “Murder Ballads” rappresenta un momento cruciale all’interno della discografia di Cave, essendo il suo maggior successo commerciale. Cosa incredibile un concept album su ballate ispirate a crimini passionali, con composizioni originali e brani tradizionali reinterpretati dallo stesso Cave. Imponente fu l’elenco degli ospiti presenti, da PJ Harvey in “Henry Lee” a Kylie Minogue in “Where the Wild Roses Grow”, il cui video girò incessantemente almeno per un anno nei canali musicali. A questi si aggiunge la cover finale di “Death is Not the End” di Bob Dylan.
(Francesco Melis)
5. The Boatman’s Call (Mute, 1997)
Gli anni novanta dei Bad Seeds (tra le migliori annate del raccolto musicale di Cave e compari) si concludono con quello che e’ tra gli album più intimi e minimali della carriera musicale della band. Reduce dal ridondante successo di Murder Ballads, un divorzio e un flirt chiaccheratissimo con Pj Harvey (amante e forse anche musa), Nick Cave mette da parte le “disgrazie” altrui, per abbandonarsi a turpiloqui personalissimi e spiritualissimi. The Boatman’s Call e’ il risultato di una ricerca interiore tenuta (per la maggior parte) dal ritmo lento e morbido di un piano, un basso acustico e arricchita dal violino tremolante di Ellis. Un concept album sulla solitudine, amplificato da una magistrale interpretazione canora piena di catarsi e servita a cuore aperto in ogni singola nota. Non che i Bad Seeds fossero nuovi alle ballate ma l’atmosfera di “Into My Arms”, “Lime Tree Arbour”, “People Ain’t No Good”, o “Black Hair” sono cosi profonde e solenni da non poter essere classificate nello spazio/tempo. Un album che viene considerato tra i 1001 da ascoltare prima di morire, e che ha testato la sua universalità accompagnando sia i funerali di Michael Hutchence che, sul grande schermo, la colonna sonora di una delle più belle storie d’amore del mondo in Shrek 2.
(Tea Campus)
4. Henry’s Dream (Mute, 1992)
Disco tra i più amati dei fan dei Bad Seeds, vede in formazione il fido Mick Harvey (‘tradito’ poi da Cave con Warren Ellis) e l’amato/odiato Blixa Bargeld. In cabina di regia del settimo album in studio David Briggs, una produzione poco apprezzata da Cave e Harvey, i quali decideranno poi di remixare l’album. Album che risente fortemente del trasferimento di Nick in Brasile, della storia d’amore con Viviane Carneiro e della nascita del loro figlio Luke (1991).
Disco più tosto e diretto del precedente “The Good Son”, suona comunque vario, un collettivo che sa di band affiatata. Cave affonda in se stesso, è più moderno, chiaramente e mai come ora autobiografico. La chitarra acustica da il suono dell’album, un suono che piega molti generi apparentemente lontani alla causa dell’ensemble.
Un Cave in fase di passaggio, che sa chi è ora, ma non sa chi e cosa sarà in futuro. Il ritorno in Uk è dietro l’angolo.
“All the towers of ivory are crumbling
And the swallows have sharpened their beaks
This is the time of our great undoing
This is the time that I’ll come running
Straight to you”
(Damiano Simoncini)
3. The Good Son (Mute, 1990)
Prendi Nick Cave e portalo in un nuovo paese, il Brasile, aggiungi una storia d’amore che lo rende felice, quella con una giornalista del luogo, e la somma delle circostanze produce “The Good Son”, uno fra i suoi dischi più “controversi”.
Non tutti i fan sono pronti ad ascoltare un album dai toni leggeri e a tratti distesi, soprattutto dopo “Tender Prey” (1988), per cui non c’è da stupirsi se le sopracciglia alzate siano più d’una.
“The Good Son” esce il 17 aprile 1990 e a ventisei anni di distanza quelle sopracciglia hanno dovuto ricredersi e hanno eletto il disco come uno dei più “sottovalutati” prodotti da Nick Cave & the Bad Seeds.
“The Good Son” è anche il disco precursore della maturità di Nick Cave, e “The Ship Song” diventa il singolo più esemplificativo di questa crescita. Non solo, in “The Good Son” troviamo tutto quello che rappresenta Nick Cave: l’uomo forte e quello gentile. E l’uomo che racconta storie, quelle storie che dopo ventisei anni ti tengono incollato al giradischi per tutti i quarantacinque minuti e dodici secondi del disco.
(Giulia Capellini)
2. From Her To Eternity (Mute, 1984)
Non è facile parlare del Nick Cave degli inizi, della fase post BoysNextDoor/The Birthday Party nè dei suoi dischi, copia carbone della sua mente tormentata (dalla morte del padre, dalla sessualità dirompente, dalla musica), complessa e confusa, nera, quasi perversa. I compagni di strada rimangono più o meno gli stessi: Hugo Race, Mick Harvey, Barry Adamson con una new entry: Blixa Bargeld, leader degli Einstürzende Neubauten, amico e nave scuola di Cave nella sua esperienza berlinese. From Her To Eternity è il disco della svolta-non svolta. L’anima dark ed il cantato animalesco e viscerale rimangono, c’è però il passaggio dalla violenza tipica della giovinezza alla maturità personale. Il disco dell’inizio della poesia, se così si può definire. Non a caso, infatti, si apre con una ‘cover’ di Avalanche di Leonard Cohen, una delle sue più grandi ispirazioni per quanto riguarda la scrittura dei testi. From Her To Eternity è un disco che parla di amore, di tormento, di desiderio certo (Cabin Fever, dedicata all’allora compagna A-N-I-T-A Lane, Well Of Misery, From Her To Eternity, Wings Off Flies) ma è anche il vero e proprio inizio del viaggio (Saint Huck, A Box For Black Paul) di Cave come poeta cantastorie, cosa in cui diventerà, a mio avviso, uno dei migliori negli anni a venire.
Lo ammetto, quel Cave fragile e con quegli enormi occhi azzurri smarriti in copertina mi ha sempre affascinata, perchè al di là della leggenda c’è un uomo, fallibile e mortale, che ha trovato la musica per esprimere le sue gioie e le sue paure e non poteva farlo meglio di così.
(Chiara Donati)
1. Tender Prey (Mute, 1988)
Il quinto album di Nick Cave & the Bad Seeds è uno snodo fondamentale nella vita di Nick Cave e degli stessi semi cattivi. Ultimo disco partorito in quella Berlino, marcia, drogata e ancora per poco divisa, è un disco disperato, claustrofobico, alienante, a suo modo imperfetto. Come ha più volte raccontato Cave ripensando al suo spettro tossicomane e inquieto dell’epoca, la genesi di “Tender Prey” è stata un incubo. Tante cose non vanno nei Bad Seeds, non tanto sul piano musicale, quanto su quello personale e prettamente fisico. La droga non manca mai, così come i tantissimi impegni paralleli. Thomas Wydler nel pieno dell’attività con i Die Haut, Blixa Bargeld con i suoi Einstürzende Neubauten, Mick Harvey con Anita Lane e i Crime & The City Solution, presenti nelle registrazioni di “Il Cielo Sopra Berlino” di Wim Wenders cui lo stesso Nick Cave partecipa, negli stessi mesi in cui lavora ai suoi progetti letterari “E l’asina vide l’angelo”, e “King Ink”. A loro si è unito un altro genio abituato a vivere negli eccessi, come Kid Congo Powers (The Gun Club, The Cramps). Molti brani sono inizialmente buttati, Flood alla produzione e Mick Harvey provano a fare quadrare i conti.
Il risultato, registrato come i due precedenti lavori nell’ex salone delle feste nazista degli Hansa Studios, è un’epopea pagana mai priva di confusi riferimenti religiosi, di scorci noir, allucinazioni da sballati. In tutta la sua asperità contiene brani insuperabili e un’atmosfera sempre tesa, intensa, nel suo essere sordida e senza speranze. Dalla furiosa cavalcata di “The Mercy Seat” dove la sedia elettrica del condannato a morte si trasfigura nel trono di Dio alle fughe mentali in miserevoli deserti gospel tipicamente Bad Seeds come “City Of Refuge”, “Sunday’s Slave” e “Sugar Sugar Sugar”. Lo strazio di “Mercy”, il sinistro sollievo celeste di “Watching Alice”, i cattivi maestri del blues degli albori, Tom Waits, l’eroina, Scott Walker, sbronze deliranti, il nonsense garage-boogie di “Deanna” e la fioca speranza conclusiva di “New Morning”. “Tender Prey” è solo l’inizio di una complessa e inquietante parabola di redenzione.
(Piero Merola)