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Quando ci si trova di fronte a personaggi come Vinicio Capossela la nostra esterofilia non ha ragione di essere. Vinicio è un cantore della vita, della natura, delle emozioni, della semplicità: non a caso in questo tour si presenta all’interno di un campo di grano, un po’ come se fosse uno spaventapasseri animato. Ha la capacità di coinvolgere anche i sassi con qualità immutata rispetto al passato: sabato sera a Festareggio il cantautore di origini irpine ma cresciuto in provincia di Reggio Emilia ha messo in scena un’opera della vita e della natura, da canzoni più intimiste (personalmente mi ha emozionato particolarmente “La notte di San Giovanni”) ai suoi classici che tutti vogliono ascoltare (“Che coss’è l’amor”, “Il ballo di San Vito”, “Ovunque Proteggi”).
Affiancato da una banda affiatata come una squadra di calcio, Vinicio non ha tra l’altro fatto trasparire nessun problema vocale nonostante si sia sottoposto pochi mesi fa ad un intervento alle corde vocali: in tutto la sua band è composta da 11 elementi (compreso lui) che macinano tarante, tarantelle e canzoni maledette con una energia e leggerezza che solo l’afflato della buona musica può trasmettere.
Unica perplessità: non ci sarebbe stato bisogno della cover di “Emilia Paranoica” fatta con Zamboni sul palco in maniera un po’ acritica. Vinicio ha un mondo tutto suo che è lontano anni luce dagli scatti nervosi dei CCCP; probabilmente è stata solo e semplicemente un’omaggio alla sua seconda terra, questa reggiana dove ha mosso i primi passi artistici e trascorso i “sabati al Corallo” (la discoteca rock di Scandiano).
Un concerto di Capossela è comunque un’occasione per riconciliarsi con le cose buone, che lascia il sorriso sulla faccia. Si esce – se non felici – serenamente sollevati perché, in fondo, “chi muore muore chi campa campa”, come dice in «Nachecici» (citazione da «I maccheroni» di Matteo Salvatore): tutto sta nel “piatto di maccaruni cu’ la carna”.
(Paolo Bardelli)