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Sono passati addirittura cinque anni da “Bon Iver”, un’attesa per qualcuno troppo lunga rispetto ai tempi che corrono. Ma ne sarebbero potuti passare anche sei o sette. Con soli due album in tre anni a cavallo tra i due decenni i Bon Iver dell’introverso Justin Vernon hanno scolpito l’immaginario di una generazione: una voce che non può che far impazzire le platee nordamericane, un gusto folk d’altri tempi che può accontentare tutti anche da quest’altra parte dell’Oceano, arrangiamenti ben fatti facili da digerire anche per gli ascoltati più casuali, melodie figlie di una vena compositiva sempre ispirata. Senza mai sentire il bisogno di regalare grandi innovazioni né di ergersi a re della musica contemporanea, Justin Vernon ha raggiunto con discrezione un successo planetario incredibile, e per qualcuno inspiegabile visto il suo mood molto poco appariscente e pacato. Ha fatto innamorare chiunque, persino uno dei personaggi più controversi dei nostri tempi, Kanye West che l’ha coinvolto in “Monster” e “Lost in the World” dal capolavoro “My Dark Twisted World Fantasy” e poi ancora in “That’s My Bitch” nel disco realizzato insieme a Jay Z e infine in “I Am a God”, “Hold My Liquor” e “I’m In It”, incluse in “Yeezus”. E senza aver bisogno di scrivere nuovi album, con un pugno di collaborazioni e progetti paralleli dalla presa tutt’altro che immediata come i Volcano Choir, il trentacinquenne autore di Eau Claire, Wisconsin, ha visto crescere la sua gloria planetaria. In maniera virale e inarrestabile. “22, A Million” arriva senza troppi proclami con una complicata serie di titoli post-internet a stuzzicare le speranze di chi attende con ansia il “Kid A” dei Bon Iver.
Basta uno dei brani di presentazione del disco come l’eccellente “33 (God)” tra Bon Iver e momenti pericolosamente Kanye West per capire molte cose. I tempi del secondo album e della reclusione nell’isolamento di una cabin del Midwest dopo varie sfighe e problemi di salute sono, per sua fortuna, un ricordo lontanissimo. Difficile trovare un legame artistico con il suo predecessore, e non soltanto sotto l’aspetto del “prodotto”. Solo due brani da “Bon Iver”, potrebbero avvicinarsi, o essere letti come un prologo del percorso poi intrapreso in “22, A Million”: la stridente “Hinnom, TX” e la traccia di chiusura “Beth/Rest”, non solo per l’autotune, gli effetti sulla voce la quasi assoluta mancanza di chitarre e soluzioni tradizionali, ma anche per quel gusto 80s da pop intellettuale votato al soul di Peter Gabriel ed eredi.
Se proprio volessimo trovare un filo conduttore, potremmo partire da qui, perché in questi trentaquattro minuti Justin Vernon e soci si lasciano praticamente alle spalle l’impronta folk da periferie americane del più spontaneo e immediato “For Emma, Forever Ago”, così come quella più introversa, invernale e ragionata del seguito. Con una sola eccezione, “29 #Strafford APTS” che almeno nella struttura potrebbe essere più facilmente ascrivibile ai Bon Iver che conosciamo. Ma si capisce subito dall’emozionante liturgia 3.0 “22 (OVER S∞∞N)” che il valore aggiunto di questa raccolta è da rintracciare negli arrangiamenti dal respiro molto minimale e contemporaneo e soprattutto nel vincente uso dell’autotune. Quella manipolazione della voce che a tratti trasforma l’inconfondibile timbro di Vernon in qualcosa di molto vicino a fenomeni hiphop/rnb contemporanei da Frank Ocean (non a caso unico collaboratore insieme a Justin Vernon nell’ultimo album di James Blake) all’amico Kanye West, avrà spinto al suicidio molti suoi fan più rock della prima ora che si sono trovati davanti a brani come l’alienante “715 – CRΣΣKS”.
Non si pensi a una svolta tranchant. La voce è la sua, i brani sono tipicamente Bon Iver e tra sporche basi elettronici molto Yeezus, un caldo tocco soul che ammorbidisce le atmosfere più fredde e robotica. Non è un disco facile, è molto ostico dopo i primi approcci, ma soprattutto nelle parti più irrequiete, come “10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄” e “666 ʇ”, Justin Vernon rivela un’anima troppo a lungo nascosta, come sempre, senza eccedere, senza mai portare volutamente a termine certe sue intuizioni. “22, A Million” sembra un affresco perfetto della contemporaneità e delle sonorità che negli ultimi anni hanno alterato il concetto di canzone d’autore ad alti livelli, alla ricerca di un equilibrio molto fragile riscoperta delle radici primordiali della musica dei maestri soul/blues e appiattimento digitale. Dai momenti più visionari e atmosferici di “21 M♢♢N WATER” che inquadra benissimo la destrutturazione della nuova anima dei Bon Iver, a quelli più sperimentali di “_____45_____” si percepisce sempre di avere comunque davanti un disco di Justin Vernon. Anche nel pop/soul levigato e dall’anima black di “(8 Circle)” dove tratti si riconosce a fatica la sua voce e si pensa a un qualche featuring inatteso. Nessuna star, nessun ospite mainstream, se si fa eccezione per le voci di Camilla e Jessica Stavely-Taylor del trio britannico The Staves e Colin Steson in “21 M♢♢N WATER”, altri fiati di fuoriclasse del settore, come Michael Lewis e la solita pletora di amici e collaboratori coinvolti negli anni a vario titolo nella sua band.
La dilatata preghiera futuristica di “22, A Million” chiude nel migliore dei modi quest’opera ambiziosa, coraggiosa, a tratti incompiuta e semplicemente abbozzata, che continuerà a tenere vivo il singolare e meritato “mito” di Justin Vernon e del suo progetto Bon Iver.
(Piero Merola)
85/100