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foto: @tdckilas su Instagram
Se il sudore sulla maglietta in una fredda serata di ottobre può essere una prova valida sulla buona riuscita di un concerto rock, allora i Parquet Courts hanno assolto alla grande il loro compito.
In un Biko in cui si mescolano giovani e meno giovani, fan della prima ora e curiosi per i nuovi alfieri dell’garage rock americano, il quartetto newyorchese ha regalato al pubblico milanese un live vorticoso e senza respiro.
Con quattro album di grande qualità all’attivo e uno zoccolo duro di fan raccolti tra critica e appassionati, i Parquet Courts forse non faranno mai il botto, ma è difficile negare che abbiano ormai raggiunto lo status di cult band. Una definizione che probabilmente loro stessi rifuggono, considerata la loro attitudine sul palco e, soprattutto, i testi delle loro canzoni: liriche ciniche e allo stesso tempo erudite, che dedicano uguale attenzione a demoni personali e denuncia sociale, quasi a rispecchiare la doppia anima della band, rappresentata alla perfezione dai due frontman.
Andrew Savage è tanto silenzioso col pubblico quanto scatenato al microfono (la sua furibonda performance vocale è uno degli highlight della serata), mentre al cantato monocorde e pungente di Austin Brown, fa da contraltare il suo istrionico atteggiamento sul palco.
I Parquet Courts pescano a pieno mani dall’ultimo disco (il bruciante trio iniziale “Dust”, Outside”,”Human Performance”) ma, come spesso capita, sono i pezzi più vecchi a scatenare la sala. Impossibile non menzionare allora la doppietta “Master of My Craft” – “Borrowed Time” eseguita come se fosse un unico brano, che fa partire l’immancabile pogo delle prime file che andrà avanti fino alla fine del concerto.
La proposta musicale della band di Brooklyn è cresciuta di album in album, diventando via via più strutturata e muscolare, mantenendo sempre quella rabbiosa vena punk che trova la sua perfetta dimensione negli scatenati live, e che contraddistingue i Parquet Courts fin dagli esordi.
Le chitarre aspre e taglienti, le ritmiche a tratti ripetitive a tratti singhiozzanti, le esplosioni vocali alternate al quasi-parlato di alcuni pezzi, sono ormai il marchio di fabbrica di una band che vive da tempo di luce propria, senza dover più guardare con eccessiva riverenza alle orme dei propri padri putativi (i sempre citati The Fall, Hüsker Dü e Pavement).
Se si vuole proprio trovare una pecca all’esibizione, potrebbe essere quella della ripetitività di alcuni brani per orecchie poco avvezze al ruvido sound del gruppo.
Ma si tratta comunque di un’osservazione di poco conto di fronte al valore di una band ancora giovanissima, ma che può già vantare un’identità ben precisa e un ruolo guida nel panorama dell’alternative rock contemporaneo.
(Stefano Solaro)