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Quando i confini di un ente si espandono a dismisura, quella cosa chiamata identità diventa un attributo precario, una ragione sottile e ambigua, tanto flessibile da spezzarsi o scomparire. Succede alle persone, alle idee, agli imperi… E non è detto che sia una cattiva esperienza. L’identità, di per sé, non rimanda a un valore assoluto. Non dico che in certi casi sia consigliabile o moralmente tollerabile sopprimere oppure dimenticare alcune identità perfettibili, ma soltanto che l’identità va pensata come una realtà dinamica, che può cambiare, evolvere o perire, senza grossi drammi. La fissazione contemporanea per la questione gender, oltre ad aver rotto le palle (pardon, i gameti sessualmente indeterminati), ci porta anche a pensare e dire un sacco di scemenze sul concetto di identità. Di fatto continuiamo a fossilizzarci su aspetti marginali e accessori dell’esteriorità, complicando un fatto semplicissimo, che capiscono senza particolare problemi anche i bambini di due anni. Ci sono delle differenze nei fenotipi, in base a cui identifichiamo i generi. Ma tale identificazione non è un crisma né una condanna, e a nulla serve criticarla o giustificarla, blaterando di un’impostazione sessista in base a motivazioni di emancipazione o reazione che si concludono sempre in ragioni di preferenza sessuale. Gli esseri umani nascono con il pene o la vagina, che poi usano come meglio credono, in contesto (si spera) privato, cioè nell’intimità, laddove nessuno ha il diritto di mettere il naso e giudicare.
Jenny Hval sofisticata e tormentata cantautrice norvegese ha costruito il suo ultimo album “Blood Bitch” come un’opera narrativa concettuale che drammatizza la crisi e le urgenze della femminilità al di là dei limiti di identità e genere, come categorie socialmente e storicamente imposte dalla cultura dominante (religiosa, borghese e maschilista). Il medium di tale rappresentazione è individuato nel sangue mestruale, il flusso atavico e umorale che scandalizza e umanizza il pensiero, unendo generazioni e categorie infinite di… donne? Di esseri che si definiscono femminili proprio in base a tale periodica manifestazione ematica. Tale verità viene colta autobiograficamente e storicamente, poi attraverso l’intervento metaletterario di un personaggio, un vampiro (fate voi le dovute associazioni) chiamato Orlando, come l’eroe Furioso, che viaggia nel tempo e, a nei lidi di un luogo apocalittico, incontra un’artista vittima delle proprie velleità e persa nei propri stimoli incoscienti… Insomma una cretinata pretestuosa e insopportabilmente arrogante, dal valore teorico e concettuale prossimo al nulla. Ciononostante la Hval si ricorda di essere una musicista e una sperimentatrice (anche grazie alla collaborazione del noise maker Lasse Marhaug), e mette insieme alcuni brani di affascinante tensione spirituale: suoni synth-pop che si trasformano in colonne sonore alienanti, nenie sci-fi tradotte in folk fumosi, lamenti electro impressi in uno sfondo new age e ballate tristissime (“Untamed Region”) che tendono a prospettive neoclassiche. La voce, come sempre ispirata e cromaticamente duttile, riesce a risuonare aliena, confidente, angosciata ed estatica, mantenendo sempre un aggraziato controllo sulle possibilità tonali. Perché l’attributo esteriore è più pop, piacevole e comunicativo (come nel ritmo etno-infernale di “The Plague”) di quanto la concettualizzazione poetica possa supportare e sopportare.
La Hval si è moralmente e teoreticamente spinta troppo lontano, distruggendo la propria identità intelligente. Ma in musica, cioè nell’istinto della rappresentazione pura e immediata, ha saputo preservare un’essenza dignitosa e rivelante, cioè espressiva, di indubbio valore, normalizzando la sua proposta e scendendo a compromessi con generi sperimentali ma non introversi.
70/100
(Giuseppe Franza)