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Non deve essere semplice essere Robert Fripp. Da quando ha dato vita all’entità King Crimson (di cui è da sempre il motore immobile) si è preso l’impegno di portare avanti una radicalizzazione -estrema quanto borderline- del rock inteso come genere.
Sempre in bilico tra rock, jazz e musica colta, sono passati 47 anni dallo storico concerto ad Hyde Park dove la voce di quel Greg Lake invitò per la prima volta il mondo ad entrare nella corte del Re Cremisi.
Da quel giorno attorno al genio di Fripp si sono alternati musicisti, generi e formazioni diverse, con le quali si è posto l’obiettivo di scoprire nuovi territori inesplorati.
Arrivati quindi alla loro ottava incarnazione, i Crimson tornano in Italia per una tournèe trionfale che ha riempito il Teatro Verdi di Firenze l’8 e il 9 Novembre. La formazione proposta per questo tour (in realtà in giro già dal 2014) stupisce già da prima che le note fluiscano nell’aria: la front-line è composta infatti da tre batteristi (due nomi già noti agli amanti dei KC, Pat Mastellotto e Gavin Harrison, e Jeremy Stacey, operativo anche alle tastiere), mentre sul retro si muovono Jakko Jakszyk -chitarra e voce-, Tony Levin -al basso e Chapman Stick-, Mel Collins, già ai fiati agli esordi del gruppo, e ovviamente mr. Fripp, che mantiene il solito basso profilo.
Dopo una brevissima introduzione, l’attacco è da brividi con “Lark’s Tongue in Aspic (part I)”, anche se nella prima parte dello spettacolo Fripp & co. non cercano di vincere facile e presentano una scaletta che fa dei pezzi strumentali ed orchestrali il suo snodo centrale, recuperando perle da quei dischi -difficili, bellissimi, spesso purtroppo accantonati- come Islands, Lizard o In The Wake of Poseidon. Il momento standing ovation arriva comunque già quando il gruppo intona “The Court of the Crimson King” dall’omonimo seminale disco del ’69.
Nonostante quindi la setlist della serata rifletta in particolar modo le prime produzioni del gruppo, riesce comunque a non cascare nel nostalgico o nel già sentito. L’esperienza King Crimson è un qualcosa che dopo cinquant’anni riesce ancora ad emozionare, ispirare e sorprendere. Gli arrangiamenti vengono stravolti dalla stra-potenza percussiva dei tre batteristi, non lasciando respiro agli spettatori con i loro splendidi arricchimenti fatti di piatti piattini campanelle e timpani. Nel frattempo non si contano assoli e momenti di maestri assoluta da parte dei tre, tra cui si erge la figura di Harrison, un robot costruito specificatamente per suonare la batteria.
(Robert Fripp 2.0)
Dopo un intervallo, la seconda parte del concerto prende vie meno tortuose ma non per questo meno interessanti, dove fanno capolino alcuni altri classici del repertorio Crimsoniano e che culminano in una delicata ed emozionante versione di “Epitaph”.
Alla fine, dopo gli applausi finali, c’è ancora tempo per un encore: e prima di concludere con la leggendaria “21st Century Schizoid Man” (ovviamente arricchita di assoli e virtuosismi a non finire) è il momento dell’omaggio a David Bowie con “Heroes”, suonata dalla leggendaria chitarra di Fripp che rimane, nella sua semplicità, una delle linee melodiche più belle della musica pop.
Finisce così quindi, dopo quasi tre ore di musica altissima, quello che chiamare concerto appare un po’ riduttivo. Quella dei King Crimson è a tutti gli effetti un’esperienza che continua ad essere impegnata e sotto diversi aspetti d’avanguardia. Quello che Robert Fripp da quasi cinquant’anni porta avanti è un caso unico nel panorama pop, e un progetto di cui abbiamo ancora bisogno per poter pensare anche ad una musica che sia più puramente ‘arte’ che ‘intrattenimento’ e lontana dai circoli cool. Un consiglio: finchè siete in tempo, assistete ad uno show dei King Crimson. Fatevi questo piacere.
(Tutte le foto prese dal sito di Tony Levin www.tonylevin.com)
(Matteo Mannocci)