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Negli Anni Ottanta i R.E.M. erano un cigno nero, un gioiello nascosto che non era facile scoprire. “Document” fu l’album con cui feci conoscenza con la band di Athens, e a posteriori posso dire che ho avuto davvero fortuna. Ho infatti un rapporto speciale con questo disco, che a mio parere condensa tutte le intuizioni del periodo I.R.S. portandolo a compimento e maturazione prima che i quattro spiccassero il volo nel dorato mondo delle major. Ma andiamo per gradi.
“Finest Worksong” innanzitutto è l’inizio più lanciato, più strong rispetto a tutta la produzione precedente: una batteria potente (con i suoni di rullante “rotondo” come andava di moda al tempo) fa da apertura shock a quella che – col senno di poi – potrebbe essere una canzone di “Monster”, e avete già capito cosa intendo dire. I R.E.M. danno così subito l’impressione di sapere davvero dove andare nel resto dell’album, che corde toccare. L’esperienza inizia a farsi sentire, il songwriting – sempre elevato anche negli album precedenti, “Murmur” e “Lifes Rich Pageant” soprattutto – qui raggiunge un picco di omogeneità sorprendente. E non a caso arrivano anche i primi veri riflettori planetari con “The One I Love”: il mondo non poteva stare a guardare di fronte a cotanta bellezza, e a traino di quel singolo di fortuna si accodano belle canzoni classico old-style REM come “Disturbance At The Heron House” e “Welcome To The Occupation”, ballate dall’elegante incedere come “Fireplace”, allegre scampagnate fuori porta (con tanto di fiati che mettono di buonumore) di “Exhuming McCarthy”. Le soluzioni d’arrangiamento lasciano sempre a bocca aperta, come l’incipit travolgente di “Lightnin’ Hopkins” o la marcetta con tanto di banjo di “King of Birds”. Da italiani, dopo aver troppo ingurgitato senza volerlo la versione ligabuesca, solo “It’s the End of the World as We Know It And I Feel Fine” è venuta un po’ a stancare, anche se basta ricordarsi i live dei R.E.M. che si chiudevano con questa canzone sparata a mille per farsela subito tornare a piacere.
Il fascino di “Document” è intatto a distanza di quasi 30 anni: un disco proletario, un disco che solo dei trentenni potevano fare (Buck ne aveva 31, Mills e Berry 29), senza incoscienze da ventenni né imbolsimenti da quarantenni. Un disco potente senza mostrare i muscoli, un disco che si sente che racconta la vita senza rimpianti né malinconie nostalgiche. Un documento poetico e ruvido assolutamente unico in quegli anni patinati, antesignano – assieme agli album precedenti dei R.E.M. – di suoni marcatamente rock che troveranno maggiore considerazione nel decennio successivo e soprattutto precursori dei suoni asciutti e semplici della cosiddetta musica “indie” degli Anni Zero, quando il piccolo era bello. Vent’anni prima, dunque.
Ogni album dei R.E.M. è da riscoprire, ma tra quelli degli Anni ’80 “Document” è a mio parere quello da rispolverare con più convinzione, se dimenticato. E’ come ritirare fuori il vocabolario, ogni tanto. Sempre ripartire dai fondamentali, si sa.
90/100
(Paolo Bardelli)