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I R.E.M. giungono, con l’eccellente ritmo di un album all’anno, al loro quarto LP: undici nuove canzoni – più in chiusura un successo pop dei Clique di fine anni 60, “Superman” – per confermarsi sempre più alfieri del rock indipendente a stelle e strisce, mettendo in campo in “Lifes Rich Pageant” un’energia di gruppo rinnovata e un talento compositivo più unico che raro e che avrà attivato più di una sirena tra le etichette major class.
L’immagine di copertina è allegoria sintomatica del mood dei quattro musicisti in un difficile momento storico e politico, ovvero rimbocchiamoci le maniche, correre spediti (con la forza del bufalo) e guardare avanti (negli occhi meditativi e le sopracciglia determinate del batterista Bill Berry). Lo si evince dalla furibonda doppietta di brani posti in apertura di disco, “Begin The Begin” e “These Days”, nei quali il consueto stile jangle arpeggiato di Peter Buck acquista robustezza, tra feedback à la Husker Du e memorie del rock’n’roll di Chuck Berry e Buddy Holly; completa il frame sonoro una sezione ritmica che va a pieni giri, impeccabile contorno ai proclami di Michael Stipe (a un intero popolo?): “The insurgency began I looked for her and I found her“, “We are hope despite the times“. “Let’s put our hands together and start a new country up” dichiara nella ballad ecologista “Cuyahoga”, dal sapore di un Neil Young di primi anni settanta; Reagan ma anche la tradizione di un America capitalista e oltranzista che spinge il mondo intero nella stessa direzione, sono nel mirino dei R.E.M. in “Fall On Me” e “I Believe”, brani perfettamente costruiti su refrain anthemici e con la seconda sulla falsa riga dell’hit d’esordio “Radio Free Europe”.
Sonorità più vicine a “Murmur” effettivamente che all’ultimo “Fables of the Reconstruction”, disco più introspettivo e di minor respiro; rispetto al veterano Joe Boyd il gruppo preferisce stavolta affidarsi a Don Gehman, l’uomo di studio di fiducia di John Mellencamp, con il risultato di: musica potente, strumenti della tradizione rock con al limite tastiere e banjo, al servizio di contenuti forti. Le canzoni sono sempre originali e vanno oltre le loro dichiarate influenze (i Byrds e i Velvet, Who, Patti Smith…) ma da oggi appartengono a tutti, un processo che si è già verificato per la musica di Tom Petty e Bruce Springsteen a cavallo dei due decenni: quella storia vissuta in prima persona e sussurrata timidamente diventa emblema di una collettività, tanto nella cavalcata a tinte garage-rock di “Just A Touch” guidata dal basso sbarazzino di Mike Mills – e risalente alle sessioni di “Reckoning” – quanto nella sognante e morbida “The Flowers of Guatemala”, che racconta un mondo perduto di “People colorful and bright” e “Flowers often bloom at night“, meravigliosa semplicità in un crescendo emotivo impetuoso che ne fa un capolavoro nel capolavoro.
Alla grandeur melodica di “Hyena”, che sembra una versione psych-wave di “Walk of Life” dei Dire Straits di “Brothers in Arms”, risponde da par suo il minimalismo folk della corale “Swan Swan H”: una perfetta fotografia di questo “Lifes Rich Pageant”, due facce della stessa medaglia, una band all’apice della creatività e pronta all’ulteriore salto.
87/100
(Matteo Maioli)