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“Reckoning” immortala lo stato di grazia dei R.E.M., ne fotografa la dirompente voglia di suonare. L’album, prodotto dalla coppia Mitch Easter/Don Dixon e registrato in due settimane negli studi Reflection di Charlotte (North Carolina), suona fresco e convincente. Dopo il debutto illuminante, ma a tratti ancora acerbo, il gruppo elabora un suo stile personale, che diventerà nel corso degli anni inconfondibile e costituirà il marchio di fabbrica su cui poi investirà senza remore la major discografica Warner. La band non si dirige verso nuove vie, preferendo affermare con determinazione gli stilemi comparsi in “Murmur”, ed ecco che ricompaiono i testi non-sense di Stipe (cut-up geniali di frasi estrapolate dal contesto), l’armonioso impasto vocale tra voce principale e controcanti e l’immancabile tocco di chitarra di Buck. Ne esce un disco di passaggio, non concepito come tale: si intravedono i primi segnali di evoluzione verso la maturità, il suono di insieme è più compatto e solido, la intesa tra Stipe e Mills diventa perfetta in ogni singolo passaggio. Con ingenuità e spontaneità i R.E.M. realizzano l’anello mancante tra l’EP “Chronic Town” e “Murmur”.
“Harborcoat”, canzone di apertura, tiratissima e dirompente, ci guida tra i flussi di pensiero e impulsi visivi di Stipe, sempre aperti alla libera interpretazione. Se non riuscite a capire cosa diamine significhi “Harborcoat”, non siete i soli, “Harborcoat” è un neologismo coniato da Stipe, nato dall’unione di due parole: “harbour” (porto) e “coat”(cappotto). Diverse frasi e parti di testi sfuggono a una traduzione razionale, con i R.E.M., non c’è nulla da fare, bisogna lasciarsi trascinare dall’immaginazione ispirata dalle trame sonori e dalle tonalità profonde della voce di Stipe. ”Seven cinese brothers”, ispirata alla favola dei Cinque fratelli cinesi di Claire Huchet Bishop e Kurt Wiese, è un abile gioco di parole, che si trasforma poi in una dedica a Carol Levy, fotografa amica della band, morta in un incidente automobilistico (“Seven thousand years to sleep away the pain.She will return, she will return. / Dormire settemila anni per scacciare il dolore. Lei ritornerà, lei ritornerà”). Il ricordo dell’amica vive in altri due brani “So.central rain “ e “Camera”: in “So.central rain” Stipe descrive uno scenario tragico, un alluvione interrompe i collegamenti telefonici, in questo contesto si inserisce l’urlo di dolore “I’m sorry” rivolto all’amica morta con i suoi sogni (“the city on the river there is a girl without a dream / la città sul fiume, c’è una ragazza senza un sogno”), in “Camera” Stipe è ancora più esplicito : già dal titolo, allude a Carol Levy, facendo riferimento alla sua passione, la fotografia (“If I’m to be your camera, then who will be your face?/ se deve essere la tua macchina fotografica, chi sostituirà il tuo volto). Se si esclude “(Don’t go back to) Rockville”, dedica alla studentessa universitaria di Athens, Ingrid Shorr, scritta da Mike Mills, le altre canzoni non presentano una narrazione descrittiva, ma si basano su giochi di assonanza tra parole e musica ( “Second Guessing”, “Letter never sent“ ,”Little America”, “Pretty Persuasion”, “Time after Time”). La capacità di divertirsi con le parole come se fossero strumenti da suonare è la magia racchiusa in questo album.
87/100
(Monica Mazzoli)
21 novembre 2016