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John Baldessari, “Throwing Three Balls in the Air to Get a Straight Line (Best of Thirty-Six Attempts)”, 1973
Catturare l’attimo durante il quale tre palline rosse lanciate per aria formano una linea dritta immaginaria: rendere immortale la casualità, fermare il tempo nel momento esatto della realizzazione o nel fallimento di un’intenzione, illustrare la tenacia e la determinazione.
Ho deciso di raccontare con questa serie di fotografie dell’artista concettuale John Baldessari il mio personale 2016. È stato un anno intenso, durante il quale ho cercato di preparare il mio futuro: ho ancora più responsabilità, ho cambiato lavoro, sto cercando casa per me e la mia ragazza. Tre palline rosse lanciate per aria, con la speranza di riuscire a fotografarle allineate, ognuna al suo posto. John Baldessari ci ha messo trentasei scatti prima di riuscirci: io sono un tipo determinato, sono convinto che andrà bene anche me.
I DISCHI
CAR SEAT HEADREST, “Teens Of Denial”
Sudore, rabbia, furore, irruenza. Il secondo album di Will Toledo è già il suo personale capolavoro: un lavoro energico, ispirato, urgente, libero. Indie-rock potente e autentico, sincero, sia citazionista che originale, vecchia maniera eppure così perfetto per raccontare la mia generazione. Dentro c’è tutto quello che sono io oggi: l’ansia del diventare adulti, le responsabilità da assumersi, le difficoltà, il lavoro, gli errori da pagare, l’entusiasmo, l’amore, i sogni da realizzare, le soddisfazioni che ci sono ora e quelle che arriveranno col tempo.
BON IVER, “22, A Million”
Un’opera d’arte. Un’opera d’arte totale: per come è stato progettato, concepito, realizzato, suonato, raccontato, illustrato. Di che cosa è fatta la canzone che amiamo? Ci ha posto questa domanda Justin Vernon, tornato dopo anni di attesa quasi inconsolabile, e ci ha anche risposto, strabiliandoci ancora una volta, facendo a pezzetti la sua musica, separandone gli elementi costitutivi, rimodellandone le forme, frammentando le emozioni che ci appiccichiamo sopra. Un’opera coraggiosa e ambiziosa, da artista vero.
JENNY HVAL, “Blood Bitch”
Di cosa parla questo disco? Molti lo hanno descritto come un concept album sul sangue, sulla sua forza vitale e sui suoi significati nella cultura pagana. Tutto vero, ma secondo me c’è molto di più: a me sembra che Jenny Hval con “Blood Bitch” sia arrivata molto più in alto, fino ad interiorizzare il racconto del suo disco, a contenerlo dentro di sé, pulsante di vita. C’è qualcosa di molto umano, molto concreto, molto femminile in questo album, qualcosa che non è solo freddo art-pop sperimentale, qualcosa di ancestrale: è il calore e il pulsare della vita, dell’eros, dell’amore. E secondo me è qualcosa di potentissimo.
WILLIAM TYLER, “Modern Country”
Romantico: non riuscirei a descriverlo più brevemente di così questo ultimo lavoro di William Tyler. Romantico, nel senso ottocentesco del termine, perchè vive di nostalgie di luoghi ideali, incontaminati, significativi della sfera dei sentimenti. Sturm und Drang purissima, raccontata con brani strumentali modellati dalla chitarra elettrica, che crea orizzonti sonori e immaginari di volta in volta diversi. Deserti, praterie, tramonti, notti stellate: “Modern Country” è la testimonianza di quell’America che a fatica è rimasta finora incontaminata dalla modernità e dal tempo presente. Qualcosa che a me sembra lontanissimo nel tempo e nello spazio, e che anche per questo mi emoziona e mi affascina molto.
ANOHNI, “Hopelessness”
L’album politico meglio riuscito dell’anno. Politico nella firma (Anohni non è Antony Hegarty, non più), nell’intenzione di unire la drammaticità vocale che conosciamo a nuove e rigeneranti produzioni elettroniche, nelle storie contenute all’interno delle canzoni. È una rabbia feroce quella di Anohni, che guarda con disillusione alle crepe del mondo occidentale sempre più evidenti: le guerre, i civili che ci vanno di mezzo, le discriminazioni razziali, l’omofobia, le fratture sociali. “Hopelessness” è il racconto di un presente cupo, ma non del tutto compromesso: è una chiamata al risveglio delle coscienze. Qualcuno che Anohni conosce bene direbbe “up patriots to arms”.
NICK CAVE & THE BAD SEEDS, “Skeleton Tree”
Cosa rimane di noi quando il dolore ci mangia dentro? A cosa ci aggrappiamo quando lo smarrimento prova a spazzarci via? Cosa vediamo nel buio assoluto? Lacrime, ricordi, scintille. Quando Nick Cave e i suoi Bad Seeds tornano con un nuovo disco fanno il vuoto intorno. È successo ancora una volta.
PREOCCUPATIONS, “Preoccupations”
Non riesco ancora a rispondermi quando mi chiedo se sia meglio questo o il precedente. Forse il precedente, che arrivò ad inizio anno e sorprese tutti in maniera indelebile. Un esordio ottimo, che mostrava la nascita di una grande band. In questo secondo album i canadesi hanno seguito la scia del meritato successo, raggiungendo però il loro apice compositivo con “Memory”: un brano che non si può definire altrimenti che il loro gioiello, il loro cuore che pulsa, il loro inno da cantare coi pugni in alto.
RUSSIAN CIRCLES, “Guidance”
C’è una cosa che ho pensato più volte, ascoltando questo album. E cioè: “se fosse vero che i generi musicali stanno scomparendo, se fosse vero che i confini tra i generi stanno facendosi sempre più labili, se fosse vero che la musica per come la conosciamo ora ha le ore contate, se fosse vero tutto questo, allora il post-rock non sarebbe forse il nostro più ricordo più intenso?”.
CASS MCCOMBS, “Mangy Love”
Io ci provo a star dietro alle mode, alle nuove tendenze musicali, ai flussi dell’hype, ai nomi più chiacchierati dalle riviste giuste, ma non c’è niente da fare, non ci riesco bene. Preferisco quasi sempre la roba demodé, come questo ultimo disco di Cass McCombs. Fuori dalle tendenze, fuori dai flussi dell’hype. “Mangy Love” più l’ascolti e più lo ascolteresti, più ne apprezzi l’essere un prodotto artigianale, genuino, autentico.
KEVIN MORBY, “Singing Saw”
Non ha fatto nulla di più rispetto a quello che conoscevamo già, Kevin Morby. Con “Singing Saw” arriva però ad un livello di ispirazione mai raggiunto prima: nelle canzoni, nei testi, nella composizione. Il suo indie-rock scanzonato sembra insomma essere arrivato alla sua massima espressione: gran bei suoni, gran bei pezzi, gran belle melodie. Un disco che ho ascoltato e riascoltato: sarebbe un’ingiustizia, un’ipocrisia, lasciarlo fuori dai primi dieci.
UN SACCO DI ALTRI DISCHI
Non citarli sarebbe un atto crudele. Fuori dall’esclusiva lista dei dieci album migliori, c’è comunque un sacco di roba memorabile. Qualche nome?
Il disco soleggiato dei Woods (“City Sun Eater in the River Of Light”), il ritorno di Brian Eno con una delle sue robe immateriali che contiene anche una meravigliosa dedica ai Velvet Undeground (“The Ship”), l’album fotografico di PJ Harvey (“The Hope Six Demolition Project”), la morbidezza dei Whitney (“Light Upon The Lake”), la classe dei De La Soul (“and the Anonymous Nobody”), Angel Olsen e il suo album femminile (“My Woman”), l’alt-electro-pop di Anna Meredith (“Varmints”) gli inossidabili Diiv (“Is The Is Are”), la schizofrenia colorata dei The Avalanches (“Wildflower”), il folk d’annata di Weyes Blood (“Front Row Seat To Earth”), gli australiani DMA’S che fanno brit-pop (“Hills End”), la serenità adulta di Eleanor Friedberger (“New View”), il toxic-pop di Eric Copeland (“Black Bubblegum”), l’electro-industrial-caraibica dei Liima (“ii”), l’album da limoni dei Soft Hair (“Soft Hair”), lo psych-pop dei Broncho (“Double Vanity”), l’esordio rumoroso degli Exploded View (“Exploded View”), il prog e la new wave dei LNZNDRF (“LNZNDRF”), l’electro latina di Helado Negro (“Private Energy”) e quel gioiellino di Romare (“Love Songs: Part Two“) che ho recuperato in extremis.
…e David Bowie (“Blackstar“)? Mi ha lasciato di stucco. Un album maestoso, mastodontico, che nella mia piccolezza ho fatto fatica a sentire mio, e quindi nella classifica non ci entra: è troppo in alto, almeno per me.
GLI ITALIANI
Buona parte dei dischi italiani che ho apprezzato di più ruotano intorno all’elettronica (come già era successo l’anno scorso): Niagara (“Hyperocean”) sopra a tutti, ma tra LP ed EP ho ascoltato davvero buone cose, da L I M (“Comet”) agli Yombe (“EP”), da Not Waving (“Animals“) agli Inude (“Love Is In The Eye Of The Animals”), da Sequoyah Tiger (“Ta-Ta-Ta-Time”) a Cosmo (“L’ultima festa”), che ha fatto quel pop che piace a me, disteso ma non frivolo, felice ma non giulivo.
Oltre a questo filone, non posso non citare anche la sorpresona Birthh (“Born in The Woods“), l’album estivo dei Baseball Gregg (“Vacation”), l’apocalissi moderna degli His Clancyness (“Isolation Culture“), l’esordio magnetico di Giungla (“Camo EP”), l’album generazionale di Motta (“La Fine Dei Ventanni”), quello poetico di JJ Mazz (“MoFo”) e il disco pazzo di Krano (“Requiescat In Plavem”).
STRADICONSIGLIA
Qui c’è tutto quello che in questa classificona non è riuscito ad entrare.
Più di 200 canzoni, per più di 15 ore di musica.
GLI ARTWORK
Ex aequo. Impossibile scegliere tra Bon Iver (“22, A Million”) e Soft Hair (“Soft Hair”).
FOTO DELL’ANNO