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L’esigenza di questa Top 7 nasce dal riascolto – continuo ed in ordine cronologico – di tutta la discografia dei Cure. Nel compiere questo percorso ci si accorge inevitabilmente che la produzione della band di Robert Smith è connaturata da quattro tipologie di canzoni, volendo categorizzare. Le prime sono le tantissime hits che erano tali al tempo, perché uscite come singoli (o 45 giri, come si diceva…), e che ancor oggi costituiscono le loro canzoni più conosciute, quelle che ai concerti fanno saltare anche chi non è fan dei Cure. Sapete già quali sono e non c’è bisogno di scriverle qui.
Ci sono poi, altra categoria, ulteriori songs (molte) che hanno avuto la loro riqualificazione nel tempo: un po’ snobbate all’inizio, si sono prese la loro rivincita successivamente per diverse ragioni. Alcune sono state veicolate ai più tramite gli apprezzamenti di stima di altri artisti o l’inserimento in colonne sonore et similia; paradigmatico è il caso di “All Cats Are Grey”, canzone “minore” di “Faith” (1980) ed inserita dagli Air come incipit del loro Late Night Tales, come a dire che è un po’ il manifesto di certe loro sonorità, oltre che utilizzata da Sofia Coppola sui titoli di coda del suo film “Maria Antonietta” (2006). Altre hanno preso possesso, a poco a poco, di un posto (quasi) fisso nelle setlists dei live. Si sa che è dal 2008 che i Cure non fanno un album nuovo di inediti: è da allora che ogni loro concerto è un greatest-hits. Bene, ci sono canzoni come “From the Edge of the Deep Green Sea”, “Push”, “If Only Tonight We Could Sleep”, “Want”, “Dressing Up”, “A Strange Day” e potrei continuare oltre, che oramai hanno travalicato il loro status di “canzoni gregarie” e sono assurte a pieno titolo tra le “classiche”.
Poi ci sono altri brani che, per ragioni varie, sono stati esclusi da questo processo ma che – a ben sentire – spaccano di brutto. E spaccano ancora oggi, a distanza di (tanto) tempo. Sono le non-hit. Questa Top 7 è dedicata proprio a questi pezzi. Che per i fans più preparati dovrebbero essere canzoni ben conosciute ma forse non approfondite a dovere, mentre per i non-fans è l’occasione per scoprire songs minori che in realtà minori non sono. Con una precisazione: in questa Top 7 si è attinto unicamente alle non-hit degli album ufficiali. Eh, mi voglio tenere aperta la possibilità di fare una Top 7 delle b-sides…
P.S. Volete sapere qual è la quarta categoria? Quella delle canzoni brutte. Ma è poca roba se parliamo di The Cure. Quasi ci si dimentica che esistano, le canzoni brutte dei Cure. Sicuramente non si notano.
7. “The Loudest Sound”, The Cure (da “Bloodflowers”, 2000)
I Cure hanno sempre giocato con l’elettronica, ma mai utilizzata compiutamente, se si esclude l’ep raccolta di singoli “Japanese Whispers” (ed era il 1983 in piena ossessione da sintetizzatori) e l’album di remix “Mixed Up” (1990, in epoca baggy). “The Loudest Sound” è uno dei pochi esperimenti di canzone che potremmo definire costruita su una struttura elettronica, raro tributo dei Cure all’ondata spinta di elettropop che ha contraddistinto la fine Novanta/inizi anni Zero. L’architettura melodica, e anche gli abbellimenti armonici di arrangiamento della chitarra elettrica con chorus marcato di Smith, attingono a piene mani a soluzioni già sperimentate dalla band (l’atmosfera da tipica loro ballad modello “One More Time”/”To Wish Impossible Things”, la chiusa dell’arpeggio che cita un po’ “Burn”, la progressione tonale), mentre il testo è un tributo di Smith all’amore maturo, quello di due anziani: “E’ una delle mie più grosse paure del futuro: è stata ispirata da una vecchia coppia che camminava sulla spiaggia di fronte alla mia casa”, ha dichiarato. Se l’intendimento era quindi quello di descrivere un amore decadente, l’immagine del silenzio tra due persone come il suono più assordante può dare anche l’idea della potenza della sintonia nell’assenza di un dialogo. Perché molte volte i sentimenti e le sensazioni si vestono di parole non dette.
And side by side in silence
Without a single word
It’s the loudest sound
6. “Object”, The Cure (da “Three Imaginary Boys”, 1979)
Uno non si aspetterebbe un Robert Smith sessista, ma qui c’è. Il re del romanticismo, degli addii sotto la pioggia, in questa canzone invece desidera solo la donna-oggetto, quella con “eyes so white and legs so long” che non va abbracciata ma solo invitata a “toccare proprio là”. Siamo nel primo disco dei Cure e l’approccio punk si sente: chitarre fuzz e pedalare. Ruvidezza mista a sfacciataggine, incoscienza giovanile che non sarà più nei successivi album che si immergeranno sempre di più nelle paure di Smith perdendo questa “non-più innocenza”.
5. “Torture”, The Cure (da “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”, 1989)
Anche in un album pop come “Kiss Me…” i Cure trovano lo spazio per la loro epicità dark. “Torture” potrebbe essere portata ad esempio di come i giri di basso di Gallup non siano solo importanti nel Cure-sound, ma siano in realtà assolutamente fondamentali ed imprescindibili. La canzone si regge infatti totalmente sul basso che non lascia un attimo di respiro e sul cantato angosciante di Smith urlato come all’interno di una stanza senza finestre, due elementi che trascinano l’ascoltatore sempre più nel profondo di questa tortura immanente solo un po’ annacquata dai fiati sintetici finali, sovrautilizzati da Tolhurst in “Kiss Me…” e certamente qui usati un po’ a sproposito.
Ma il climax rimane, e riascoltare oggi questo pezzo è comunque un’esperienza densa e totalizzante.
4. “The Drowning Man”, The Cure (da “Faith”, 1981)
Tutto è perduto, in “The Drowning Man”: l’amore, la bellezza, la gioventù. I rimpianti di una vita fanno male, soprattutto se non è stata quella che si sarebbe voluta. E’ una canzone senza ossigeno, è il respiro di un annegato. In “Faith” e “Pornography” Robert Smith scandaglia in maniera chiara e asciutta le ansie cosmiche e i fallimenti di ciascun uomo, e “The Drowning Man” è una delle vette del suo racconto angosciato.
Testo ispirato dal libro “Gormenghast” di Mervyn Peake.
3. “Homesick”, The Cure (da “Disintegration”, 1989)
Sono stato indeciso se si poteva definire “non-hit” una qualsiasi canzone di “Disintegration”: troppo importante come disco nel suo complesso, vissuto da molti come l’album “della vita”, quello che ti ha cambiato e per cui tu non saresti quello che sei, se non fosse mai uscito. Ma è pur vero che tutte le canzoni hanno ricevuto il riconoscimento dovuto tranne, forse, “Homesick” e “Untitled”. E se quest’ultima è, da un punto di vista musicale, il lato pacificato di “Disintegration”, “Homesick” è invece immersa pienamente nella disintegrazione che porta l’età adulta, il tema di tutto l’album. E’ in realtà un dialogo tra la chitarra, il piano e il basso, che si rincorrono tra frasi complete, altre interrotte e altre ancora sussurrate. E’ un confronto delicato che però rimane sospeso tra la nostalgia di casa e il desiderio opposto di non tornarci.
Perchè là dentro ci sono le nostre paure o, meglio, ci siamo noi.
2. “A Short Term Effect”, The Cure (da “Pornography”, 1982)
Nell’insonnia tutto si confonde, il buio può fare brutti scherzi ma anche la luce del giorno può non essere così amica (“a day without substance”). “A Short Term Effect” è tutto questo, un incubo in cui si mescolano visioni annebbiate di uccelli che cadono a terra stecchiti, mani di persone sconosciute che tentano di afferrarci e donne che ballano con ghigni malefici e pazzoidi nel deserto.
Ma più che visioni “A Short Term Effect” è popolata da suoni insonni, o meglio da non-suoni: dalla piattezza del rumore bianco ma soprattutto dal delay dell’eco. Perchè tutto è fuori fase, e anche la voce di Robert Smith con quelle chiuse modificate in delay orrorifici.
E l’incedere malato della canzone, inarrestabile come un treno in corsa, inquieta come se si fosse all’interno di una scena de “L’esorcista”.
1. “Other Voices”, The Cure (da “Faith”, 1981)
Da ragazzo amavo le storie di fantasmi: quella sensazione straniante di sfogliare le pagine del libro e ogni tanto dare un’occhiata alla porta, là in fondo, per controllare che tutto fosse a posto e che non ci fossero scricchiolii in giro. “Other Voices” per me rappresenta questo, quelle voci nella testa che ti dicono che c’è qualcosa sotto il letto e tu non ci credi ma ugualmente scosti la coperta per scorgere il pavimento.
Che in realtà è poi il senso di tutte le canzoni dei Cure: non accontentarti di quello che vedi razionalmente, ascoltati bene nel profondo perché quello che conta è quello che provi, come ti senti.
Oltre la musica, praticamente psicanalisi.
(Paolo Bardelli)