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Quella dei Future Islands è una storia anomala al giorno d’oggi: un successo che ha molto a che fare con la gavetta e il sudore, a contrario delle innumerevoli band next big thing che vediamo bruciarsi nel giro di un paio di album. E proprio a proposito di big thing, alla formazione di Baltimora ci sono voluti quattro dischi per arrivare al successo: il precedente “Singles”, uscito nel 2014, fu concepito con lo scopo di spaccare, e infatti spaccò. Un autentico instant classic, una pietra miliare del decennio, un disco che sicuramente ricorderemo per parecchi altri anni ancora, così come quella storica esibizione da Letterman, vero e proprio turning point della carriera della band.
Da quell’album sono passati quasi tre anni, e se siamo ancora qui a parlarne significa che “The Far Field” è chiamato a rispondere a grosse attese. Tre anni molto intensi per Samuel T. Herring e la sua band, divenuti di colpo, ma meritatamente, uno dei nomi grossi della musica contemporanea. E in una situazione del genere, di grande notorietà ma anche di grandi responsabilità verso un pubblico sempre più esteso, sbagliare è un attimo.
Per evitare di sbagliare serve aver mestiere: e i Future Islands, che il prossimo anno scollineranno il primo decennio di carriera, di mestiere ne hanno eccome. Ecco perché si può dire che questo “The Far Field” sia all’altezza del suo predecessore: nonostante sia meno ricco di singoli a presa rapida, è un disco che sa accontentare le attese e sorprendere quel tanto che serve per non far rimanere delusi i fan vecchi e nuovi. In questo senso, anche la scelta dei singoli di anticipazione – “Ran” e “Cave” – è molto strategica: sono i pezzi che più si avvicinano a quel mood catartico ed esplosivo che rende “Singles” un album vivo e pulsante ancora oggi. La miscela è la stessa: un basso cicciotto a dare il tempo e tastieroni anniottanta a disegnare melodie pop, per una riuscitissima e ormai riconoscibilissima miscela di new wave e synth pop. Ma soprattutto in “Cave” si avverte qualcosa di diverso dai toni mastodontici a cui eravamo abituati: invece che verso l’esterno, la potenza espressiva delle canzoni sembra implodere. Non che la band di Baltimora fosse estranea al racconto delle emozioni forti – anzi, è proprio quel suo modo muscolare di musicare il dolore, la passione e la sofferenza ad averci conquistato negli anni – ma dentro “The Far Field” si avvertono toni ed atmosfere più introspettive e intime.
Spostandosi dalla grandeur musicale ed espressiva di “Singles”, volutamente o no, i Future Islands provano quindi a gestire un’eredità parecchio pesante, e tutto sommato riescono nel loro intento: oltre ai due pezzoni sopra citati, le atmosfere in questo “The Far Field” sono molto più ombrate, dall’asciutta composizione di synth e organetti “Beauty of The Road” alla malinconica “Through The Roses”, dalla morbida “Shadows” (in cui compare a sorpresa, e che sorpresa Debbie Harry) al crooning dell’ultima “Black Rose”.
Lo dicevamo prima: questo album è una prova di mestiere, di esperienza. Forse non ci farà commuovere o battere i pugni sul petto, forse non resterà per molto tra i nostri ascolti, ma “The Far Field” è un buon album: laddove una band alle prime armi poteva rischiare provando a superarsi di nuovo, e probabilmente fallire, i Future Islands scelgono invece di fare bene quello che sanno fare bene. E mentre sul disco passerà inesorabilmente del tempo, sono canzoni come “Cave”, “Ran” ma anche “Aladdin” e “Time On Her Side” a restare. E noi ci ritroviamo qui di nuovo a ripetere, ancora una volta, la stessa cosa: grazie.
76/100
Enrico Stradi