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L’appuntamento mensile con un contenuto di Mangiatori di Cervello, per approfondire qualcosa di “altro” rispetto ai “soliti” contenuti kalporziani con lo stile e la visuale inconfondibile di MdC.
L’OPD-2 (Manuale per la diagnosi e il trattamento psicodinamico operazionalizzato) annovera nell’asse dei possibili conflitti quello tra Individuazione e Dipendenza. Tale conflitto è presente sicuramente in tutti noi e a renderlo più o meno permeante nel nostro assetto soggettivo è la quantità di conflittualità, la polarizzazione del conflitto stesso o determinati momenti della nostra vita. Ciò che ritengo utile comunicare non è tanto la situazione più o meno psicopatologica legata alla manifestazione di questo conflitto, quanto la consapevolezza che esso si possa ritenere uno dei principali dilemmi della contemporaneità.
Che la dipendenza sia vista di cattivo occhio non è un mistero: c’è un sentimento di grande condanna, soprattutto verso la dipendenza affettiva, che viene vista più o meno giustamente come condizione invalidante, come una debolezza, e viene fortemente scoraggiata e criticata da movimenti di ogni tipo. Spesso la psicologia popolare fa riferimento a relazioni simbiotiche, parassitarie, sbilanciate e il copione sembra essere abbastanza uniforme: un membro della coppia si carica sulle spalle l’altro, che gli succhia le energie e si alimenta della sua “forza”. La signora che incontriamo al sabato mattina al supermercato scoraggia questo tipo di relazioni: sono nocive per il membro “forte”, che si vede privato della sua libertà, ma anche per il membro “debole”, che si vede regredito a una condizione infantile.
A livello di psicopatologia non da supermercato qualcosa di vero in questo storytelling ci può essere, ma la situazione è senz’altro molto più complessa. La fragilità di queste argomentazioni è evidenziata dallo stereotipo, sempre da supermercato, dell’individuo indipendente.
L’individuo indipendente è colui che intraprende relazioni soltanto quando il bilancio è positivo o almeno in parità: le relazioni che non danno nulla vanno depennate, come si fa con le zucchine dalla lista della spesa quando ci sono i pomodori in offerta. Nasce così la figura del Freerider (cit. Zamperini Adriano), individuo che agilmente “salta” da una relazione ad un’altra, spinto da ciò che effettivamente gli è utile, mettendo alla porta della sua vita gli incompetenti e inutili, perché nel calcolo costi/benefici essi sono clamorosamente in difetto (secondo lui). Peccato che il Freerider, nella grande maggioranza dei casi, si troverà un giorno squisitamente solo e, resosi conto di non poter condividere con nessuno i propri successi, sprofonderà in uno stato di solitudine o depressione.
Allora spesso accade che il Freerider decida di farsi una famiglia, di crescere un figlio a sua immagine e somiglianza, un figlio che possa prendere quella specializzazione in medicina che lui non ha mai preso, oppure che possa rilevare la sua importante azienda portando avanti il suo nome nei secoli dei secoli. Questa felicità messa insieme con il chewin gum, tuttavia, ha la consistenza di un castello di sabbia vicino al mare: basta un’onda un po’ più decisa e il castello, che sia una semplice torre o un complicato sistema di ponti levatoi e mura, si sgretolerà. Il Freerider, nella maggior parte dei casi, non è cattivo, ma è semplicemente una persona che, drammaticamente, ha appreso soltanto questo modo di vivere (ci sarebbe molto altro da dire, ma servirebbe un altro articolo n.d.r.).
Sì, ma qual è il punto? Per capirlo meglio vorrei citare, a titolo esemplificativo, il comportamento del paziente borderline in terapia. Egli, durante le prime sedute, si presenta a tratti terrorizzato di poter agire in una relazione totalmente simbiotica, che lo porti ad assumere il ruolo di bambino privo di qualsiasi responsabilità ma anche di capacità di azione autonoma, una dipendenza totale; dall’altra parte è terrorizzato dalla possibilità di allontanarsi totalmente dal suo terapeuta, di rendersi impenetrabile ed inaccessibile, di collocarsi a chilometri di distanza da tutto e tutti.
Ecco, noi nelle nostre relazioni siamo, nel nostro piccolo e nella nostra presunta sanità, un po’ come i borderline di fronte al terapeuta: oscilliamo tra il terrore di fonderci con l’altra persona, di diventare la relazione che abbiamo, di dipendere totalmente da un altro, oppure predichiamo un’indipendenza delirante, una separazione dagli altri e da se stessi che non può far altro che consegnarci al buio e alla staticità della solitudine. Vagando tra questi due fantasmi finiamo spesso confusi, veleggianti in un alone di mistero, rifiutando una comprensione piena di ciò che accade, comprensione che ci pare difficile e dolorosa, e che decretiamo per questo motivo inutile.
Spesso sento dire che sono stati i social network a portarci a questo: a mio avviso sono balle. Balle perché un motivo c’è, oltre ovviamente al progresso tecnologico, se i social nascono in questo periodo e in questo periodo trovano la loro massima diffusione. Essi infatti ci permettono di mantenere il nostro “ossimoro borderline”: essere vicinissimi o lontanissimi a seconda dell’esigenza, o, sarebbe meglio dire, a seconda della paura.
a cura di www.mangiatoridicervello.com
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