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Spandere il veleno paga. E Kozelek, che non è un fesso, se ne è accorto per tempo, guadagnandone in salute e in soldi. Invece di tenersi tutto dentro e continuare ad autolacerarsi, da quattro o cinque anni, il cantautore americano ha iniziato a sparare cattiverie senza nessun ritegno e a confessare con iperbolico compiacimento il suo disgusto per il mondo, per la gente e per l’esistere. E tutti quanti a dire: “bravo!“. Fateci caso. Il suo progetto Sun Kil Moon ha avuto un riscontro di critica e pubblico solo con “Benji”, il primo disco dove il suo tono depresso e maledetto si è riversato verso l’esterno, tramite ritratti pieni di acredine, maledizioni rivolte a luoghi e situazioni e condanne palesi, con nomi, indirizzi e numeri di telefono dei nemici.
In questo doppio dal titolo lungo e livido di paranoia, Sun Kil Moon continua a fare ciò che gli riesce così bene: ciarlare all’infinito, giustapponendo elementi di vita vissuta, immagini simboliche e cazzimmate su arpeggi lentissimi di chitarra, accordi pseudo-blues (l’ideale a cui Kozelek da sempre mira è un sinolo tra materia nickcaveiana e forma neilyounghiana) e stilizzazioni da rock fm. Le novità minime stanno in un uso più vario e incisivo dei synth e nelle maggiori concessioni alla melodia.
L’impalcatura è collaudata, criticamente classica. Steve Shelley detta un tempo mai troppo banale o prevedibile con cassa e rullante, pur rimanendo offuscato, e Kozelek ci gira intorno con una chitarra classica o con un ukelele. Qualche volta entra nel pezzo con più impeto, usando un basso o un synth… Ma il fulcro del lavoro è di natura lessicale. Contano le parole, il modo (quasi sempre cupo e narcotizzato) in cui si inseguono o si appiccinano l’una sull’altra. Le parole che da sole creano racconti, fatti di luoghi (l’Ohio, il Portogallo, Philadelphia, le autostrade, i negozi, i palchi, i campi, i palazzi…) e di persone (bambini senza nome e presidenti americani, giornalisti che hanno osato contrariarlo e musicisti che ammira, come Bowie, e altri che schifa) ma soprattutto di impressioni personali e di giudizi non richiesti. Polemiche e critiche, spernacchiamenti e insulti, che la gente comune si tiene per sé o dice in faccia quando perde le staffe… Oppure, nel peggiore dei casi, trasforma in battute gestibili per sfogare un po’ di frustrazione sui social o con gli amici al bar… Mark Kozelek, che vuole capitalizzare, le staffe le ha proprio buttate via. Non usa i social e al bar, probabilmente, ci va per bere da solo. Le cazzimmate le incide, le trasforma in sfoghi poetici. E se qualcuno inizia a stancarsi della faccenda, Sun Kil Moon non si arrende, perché probabilmente si diverte pure, perché sente che il meccanismo gli fa bene. O perché è fatto proprio così. Usa se stesso come un martello, e batte, sbatte, sempre sugli stessi punti e con la stessa flemma omicida. Alla fine, dietro le parole, i fatti che capiamo e non capiamo e le litanie baritonali, la qualità c’è, il sentimento pure. Anche se il personaggio vi risulta odioso, non potete negarlo.
69/100
Giuseppe Franza