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Esaurito il primo giorno di festival viaggiando in macchina da Roma alla Costa Azzurra, e saltando così le proiezioni stampa de Les fantômes d’Ismaël di Arnaud Desplechin (scelto come film d’apertura fuori concorso) e Loveless di Andrey Zvyagintsev, primo titolo a correre per la conquista della Palma d’Oro, siamo entrati nel vivo della settantesima edizione di Cannes. Mentre il maggio odoroso si apre a squarci d’azzurro cielo e a nessuno gliene frega un granché – almeno all’apparenza – della recente elezione come presidente della repubblica di Emmanuel Macron, il festival della grandeur inizia un po’ zoppicando.
La colpa è soprattutto di Wonderstruck, attesissimo ritorno alla regia dello statunitense Todd Haynes (Velvet Goldmine, I’m not There, Lontano dal Paradiso, Carol) che giganteggiava di prima mattina sullo splendido schermo del Grand Théâtre Lumière: storia di due infanzie “mute”, nel vero senso della parola, che riannodano i fili di una storia familiare a decenni di distanza l’una dall’altra, Wonderstruck prende ispirazione da un romanzo di Brian Selznick, autore da cui trasse spunto anche Martin Scorsese all’epoca di Hugo Cabret. Se però Scorsese dimostrava di saper gestire con rara potenza visionaria il punto di incontro tra il fiabesco e la macchina del meraviglioso, vale a dire il cinema, questo non riesce praticamente per niente a Haynes, che finisce per firmare un’opera anodina, priva di mordente, poco appassionante e anche patinata là dove sarebbe stata più opportuna una visione più grezza, meno levigata. Invece tutto scorre nell’alveo di una finzione dichiarata che però non si trasforma mai né in rilettura filologica del cinema né in metafora di alcunché. E il concetto di muto diventa ben presto puro ornamento inessenziale. Una delusione enorme.
La giornata si è poi ripresa con Blade of the Immortal, ottantanovesimo lungometraggio diretto da Takashi Miike, qui a Cannes inserito nel ricco palinsesto dei fuori concorso: una storia di cappa e spada che flirta con l’horror e che dimostra una volta di più la peculiarità di un regista che non ha eguali, sia per prolificità che per lettura del fantasmagorico, e sua crudele e al contempo dolce messa in scena. Divertissement forse a tratti troppo lungo e reiterato – sfiora le due ore e mezza di durata – ma che sprizza cinema da tutti i pori; e non è cosa da poco.
A mettere la parola fine sulle visioni quotidiane è stato Barbara, biopic sui generis che il talentuosissimo attore e regista transalpino Mathieu Amalric ha dedicato a Monique Andrée Serf, in arte Barbara, cantautrice francese di origine russa che divenne celebre soprattutto per la sua interpretazione dei classici di Jacques Brel negli anni Sessanta. Amalric gioca coi piani temporali, con il concetto di realtà e con quello di ricostruzione della realtà, e firma un’opera sbalestrata ma affascinante, dominata in tutto e per tutto dalla splendida interpretazione di Jeanne Balibar, che alcuni ricorderanno tra gli altri in Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle), Fin août, début septembre, e La duchessa di Langeais. Un bel modo di salutare il primo giorno di festival.
(Raffaele Meale)