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Archiviata per ora la polemica relativa a Netflix (ma riemergerà domani, quando parleremo di The Meyerowitz Stories (New and Selected), il nuovo film di Noah Baumbach), a prendere possesso del proscenio, e del festival nel suo complesso, è una signora bassina e coi colori bicromi che a fine mese, subito dopo la fine del baraccone sulla Croisette, compirà 89 anni. Sto parlando di Agnès Varda, figura centrale del cinema francese degli ultimi sessant’anni, autrice di alcuni titoli di assoluto culto (Cleo dalle 5 alle 7, Senza tetto né legge, Kung-Fu Master) nonché moglie del geniale collega Jacques Demy che ancora oggi, a ventisette anni dalla sua morte, continua ad albergare in ogni singolo fotogramma e inquadratura lavorato dalla Varda. Fuori competizione qui a Cannes la regista ha presentato Visages villages, co-diretto con l’artista visivo JR, di cinquantacinque anni più giovane: un viaggio sublime nella Francia e nelle rispettive storie personali dei due registi, che diventa inevitabilmente riflessione sul cinema, sul senso dell’immagine, sul suo valore politico e di lotta. C’è anche un’apparizione/non-apparizione di Jean-Luc Godard, per esplicitare meglio il concetto… E proprio Godard rappresenta il trait d’union della giornata, visto che questa si è conclusa con la proiezione dell’atteso (e temuto) Le redoutable, il film biografico su due anni nella vita del regista svizzero a cavallo del ’68, diretto da Michel Hazanavicius. Un’opera concettualmente sbagliata, errata in ogni suo singolo passaggio, che pensa di poter raccontare un’epoca cinematografica e sociale di rilevanza assoluta ricorrendo a motteggi, battute, scherzi e giochetti. Replicando, di fatto dimostrando di non averli mai capiti, alcune abitudini del cinema di Godard, che in mano a un regista dozzinale come Hazanavicius perdono qualsiasi consistenza anti-sistemica per diventare solo vezzo autoriale, per di più privo di qualsivoglia forza. Un cinema che non andrebbe prodotto, foraggiato, e tantomeno portato in concorso al festival più importante del mondo. Ma tant’è…
In una giornata dalla predominante francofona ha detto la sua anche Robin Campillo, regista ma anche e soprattutto fedele montatore delle opere di Laurent Cantet: il suo 120 battements par minute, a sua volta in concorso, vorrebbe raccontare i primi anni Novanta e le azioni di lotta di un gruppo di attivisti per la sensibilizzazione delle tematiche inerenti all’Aids e alle scarse politiche governative. Un pamphlet che regge solo quando mantiene un’aura vagamente documentaristica, ma crolla sotto il peso di una retorica spicciola quando sceglie invece di concentrarsi sulle singole vicende personali di alcuni dei protagonisti. Potrebbe però, nonostante la diffusa mediocrità, ambire a qualche riconoscimento ufficiale.
Intanto in una Cannes praticamente militarizzata, ieri è stato evacuato per una ventina di minuti il Palais a causa di un sospetto pacco-bomba, che si è ovviamente rivelato del tutto privo di consistenza. Però si è potuta testare l’organizzazione del festival, e c’è da dire che visto il pressapochismo mostrato fa un po’ tremare l’idea che possa davvero succedere qualcosa. Chi vivrà, è proprio il caso di dirlo, vedrà.
(Raffaele Meale)