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Quando nel 2014 presentò in concorso Still the Water, Naomi Kawase arrivò baldanzosa sulla Croisette reclamando il proprio diritto alla conquista della Palma d’Oro. “Sono qui per vincere”, sentenziò con poco rispetto dell’ideale decoubertiano. Ovviamente non vinse – il film era magnifico, ma la giuria gli preferì il più strutturato, e meno riuscito, Il regno d’inverno del turco Nuri Bilge Ceylan – e quando tornò di nuovo a Cannes con il dimenticabile Le ricette della signora Toku venne addirittura “retrocessa” in Un certain regard. Se oggi invece Hikari (Radiance è il titolo per il mercato internazionale) è di nuovo accolto nel concorso principale è perché la regista giapponese ha concrete possibilità di portarsi a casa qualche premio, magari anche il premio dei premi, e non solo per la palese mediocrità della selezione media di questo anno. Radiance è un’opera dolorosa e stratificata, che indaga sul concetto di lutto e sull’elaborazione della perdita – degli affetti, ma anche della vista come capita a uno dei due protagonisti – e lo fa inseguendo da un lato direttrici teoriche, con tanto di riflessione sull’immagine come veicolo dell’interazione tra gli esseri umani, e dall’altro invadendo il territorio dell’emotività. Ne viene fuori un film complesso, che non ha paura di portare alla lacrima il proprio pubblico ma allo stesso tempo rifiuta qualsiasi cedevolezza retorica. In effetti potrebbe facilmente convincere una giuria. Chissà…
La straordinaria potenza immaginifica (e a sua volta teorica) di 24 Frames, opera postuma di quel maestro del cinema iraniano che fu Abbas Kiarostami, ha devastato gli sguardi degli accreditati che si sono recati in sala per venire soggiogati dallo splendore di questi 24 frame, come indica il titolo, ma è stata scacciata via con malagrazia dal fastidioso Dopo la guerra, esordio alla regia dell’italiana trapiantata a Parigi Annarita Zambrano. Una riflessione sul terrorismo rosso e sugli strascichi che si portò dietro a inizio anni Duemila che non solo non sa dove andare a parare da un punto di vista politico, scegliendo una squallida posizione democristiana, ma si perde anche sotto il versante strettamente narrativo. E il pre-finale grida davvero vendetta.
Nella serata, snobbando senza troppi pentimenti il film del concorso – Rodin di Jacques Doillon, di cui finora non mi sono state dette meraviglie – me ne sono andato al cinema Les Arcades, dove vengono presentati i recuperi dei film della Quinzaine des réalisateurs. Visto che non si entra per ordine classista di badge ma tutti sono ammessi allo stesso tempo, al grido immortale di “chi prima arriva meglio alloggia” mi sono messo davanti all’ingresso del cinema con due ore di anticipo; mossa un po’ schizoide ma saggia, visto che tre quarti della fila è rimasta fuori dalla proiezione, e visto che il film Jeannette, l’enfance de Jean d’Arc di Bruno Dumont è uno dei pochi colpi al cuore di questo festival. Sorta di musical rock sull’infanzia di Giovanna d’Arco, il film di Dumont è un folle atto di eresia consapevole, che butta all’aria tutto e tutti e dimostra come scarnezza e ipertrofia possano nel campo dell’immaginario diventare persino sinonimi. Spiazzante e perfino spassoso – lo zio della pulzella che parla solo a ritmo di rap è destinato ad alimentare un proprio culto – difficilmente troverà qualcuno altrettanto pazzo da distribuirlo fuori dal territorio francese. Un vero peccato.
(Raffaele Meale)