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Forse non sono in molti, fuori dal recinto cinefilo, a serbare memoria de La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel, glorioso western sudista ambientato durante la guerra di secessione che rilanciò una volta di più l’icona di Clint Eastwood e che si insinuava nel dibattito sulla liberazione dei corpi, sulla repressione, sulla dicotomia sesso forte/debole, e via discorrendo. Ora Sofia Coppola, che si è dimostrata negli anni regista sofisticata (Il giardino delle vergini suicide, Lost in Translation, Marie Antoinette), prende spunto dal medesimo romanzo, The Beguiled, scritto nel 1966 da Thomas P. Cullinan. Aveva tutto per convincere questo progetto, a partire dall’idea di un ribaltamento dello sguardo non più incentrato sull’uomo, un nordista ferito e sanguinante, ma sulle donne e ragazze che vivono nel piccolo collegio dove gli danno rifugio, lo curano e lo nascondono. Sempre prima che irrompa il desiderio, e la mescolanza dei generi produca effetti incontrollabili… La Coppola dimostra tutta la propria sapienza registica, ma non riesce a eludere la trappola del calligrafismo, e si lascia prendere la mano da vagheggiamenti di grottesco che annacquano in gran parte il potenziale anche politico del film. Resta una splendida Kirsten Dunst – l’unica davvero in parte del ricco cast che comprende anche Colin Farrel, Nicole Kidman e Elle Fanning – e la bellezza un po’ fine a se stessa della fotografia. Piccola delusione.
Molta più carne al fuoco nel successivo Demons in Paradise presentato alla stampa fuori concorso in una Salle Bazin vuota per l’80% dei posti. Una vergogna vera e propria, che dimostra il grado di attenzione degli addetti ai lavori quando si abbandona il mainstream per muoversi in territori meno battuti. Demons in Paradise è infatti il documentario in parte anche autobiografico che il regista srilankese di etnia tamil Jude Ratnam ha dedicato alla guerra di liberazione del proprio popolo contro l’oppressione del governo di Colombo, in mano ai singalesi: un viaggio anche nella guerra fratricida che ha visto ben presto fazioni di tamil in lotta contro altre fazioni di tamil. Ratnam punta non solo alla descrizione di ciò che fu, ma anche all’ambizione di riunificare il mondo tamil, riconciliare dopo gli anni di dura lotta. Ritornare a vivere. Avrebbe meritato assai più attenzione, invece qui a Cannes è apparso e scomparso come un fantasma.
Nel primo pomeriggio ho raggiunto la Salle Marriott, patria degli aficionados della Quinzaine des réalisateurs, per vivere sul grande schermo l’esperienza di Marlina the Murderer in Four Acts, terzo lungometraggio della regista indonesiana Mouly Surya, che presentò anni fa al Far East il suo affascinante esordio Fiksi: Marlina the Murderer in Four Acts, storia di una donna che decapita l’uomo che voleva stuprarla dopo averla derubata insieme alla sua spregevole gang, e si porta in giro per le campagne la testa in attesa di una vendetta definitiva che possa darle di nuovo il senso della vita, è un film divertente e costruito con una certa intelligenza, anche se tutto resta in superficie e permane solo l’impressione ludica. Alcune sequenze cult ci sono, le teste mozzate volano via che è un piacere, l’omaggio allo spaghetti-western (filtrato però dall’esperienza tarantiniana) è ben calibrato, ma il tutto si fa un po’ evanescente. Durerà nella memoria? Ho i miei seri dubbi… Durerà invece nella memoria, nonostante qualche cedimento al sonno dovuto alla stanchezza, la visione in Cannes Classics della versione restaurata de La Bataille du rail di René Clément, girato nel 1945 quando la guerra di liberazione dal nazismo era ancora in corso e parte della Francia era ancora sotto il giogo delle truppe hitleriane: un’ode ai dettami della rivoluzione che ovviamente non evita didascalismi ma appare in tutta la propria forza, grazie anche alle riprese documentarie girate sui treni con l’avallo del sindacato dei ferrovieri, che boicottava in ogni modo gli invasori teutonici. Glorioso.
La serata è poi continuata, e finita (prima di una meritata birra) con Krotkaya, vale a dire A Gentle Creature e/o Une femme douce – a seconda della traduzione del titolo che si predilige –, nuovo lungometraggio del cineasta ucraino Sergei Loznitsa, presentato in concorso. Lo strapotere poetico ed espressivo non può essere minimamente messo in dubbio: nel raccontare la triste e paradossale storia di una donna che deve affrontare la macchina burocratica putiniana per cercare di andare a trovare il marito, in prigione con l’accusa di omicidio, Loznitsa sfodera una messa in scena straordinaria, in grado di annichilire anche lo spettatore più preparato. Anche sotto il profilo narrativo ci sono pochi dubbi sulle qualità del film, che spazia tra echi kafkiani e crudi ritratti di ordinaria vita suburbana nella Russia di oggi. Si continua a sentire in bocca però il retrogusto metallico di una lettura politica non della struttura governativa russa ma del suo popolo che infastidisce, e apre un discorso sulla messa in scena dell’umano e sul (pre)giudizio. In attesa di svolgere la matassa – mi ci arrovellerò per i prossimi giorni, senza dubbio – una delle opere comunque più interessanti e compiute di un concorso che sta volgendo al termine. Senza picchi. Domani tocca a Lynch e a Twin Peaks, e tanto basta.
(Raffaele Meale)