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Ci sono concerti in cui c’è la musica e basta, nuda e cruda, violenta o meno, di qualsiasi genere. Ce ne sono altri invece che hanno qualcosa che non sai spiegare ma che va oltre. Quasi come assistere ad un rito.
Wovenhand live è un po’ così, un rituale di non sai bene quale religione, probabilmente una tutta sua, ma sai che c’è qualcosa di mistico. In fondo basta dargli uno sguardo veloce mentre sale sul palco ed inizia a suonare e cantare per capire. Il look da indian cowboy, veli teli e pon-pon sparsi un po’ ovunque, ma soprattutto i movimenti. Lento ma preciso, occhi quasi mai al pubblico, spesso e volentieri chiusi o rivolti all’indietro come se stesse parlando con qualche dio o demone lontano che solo lui può sentire. Nonostante il caldo insopportabile che solo in un concerto al chiuso a metà maggio può esistere ahimè, mi lascio prendere anch’io dal Good Shepherd. Il concerto scorre via veloce, senza interruzioni. David Eugene non parla col pubblico, è la sua musica a farlo. E’ la sua voce lontana, quasi fosse un eco. E’ la melodia semplice ma accattivante che parte con qualche accordo di chitarra tra il folk americano più dark e oscuro e l’alt-rock più nero.
Lo ammetto, mi aspettavo qualche schitarrata in più, ma per una sera non ne ho sentito la necessità impellente. Speravo anche in una scaletta un po’ più variegata e qualche ripescaggio più ‘particolare’ (niente dei primi dischi, il pezzo meno recente risaliva al 2010), ma ci si accontentava volentieri anche dei pezzi degli ultimi 3 dischi (anche perchè, se non l’avete mai ascoltato, ‘Refractory Obdurate’ vale assolutamente 45 minuti della vostra vita).
Insomma, fatevi dire da una che ultimamente non ascolta più chitarre perchè ‘non ne può più di gruppi “pseudo punk core”, che per una sera ogni tanto, vale la pena sopportare.
Foto di Chiara Viola Donati (Instagram: @chiaraviolenta)