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Una delle nostre più importanti realtà indie-rock da esportazione.
Non li definirei con altre parole i Solki, trio composto da Serena Altavilla (voce e chitarra), Lorenzo Maffucci (chitarra) e Alessandro Gambassi (batteria e synth), freschi di pubblicazione del secondo album “Peacock Eyes” e di partecipazione al No Glucose Festival. Queste le sensazioni del gruppo a un mese dall’uscita del disco e in modalità Tour.
“Peacock Eyes” arriva a distanza di tre anni e mezzo da “Sleeper Greele”. Cos’è successo in questo lasso temporale e come sono i Solki di oggi rispetto a quelli dell’esordio discografico?
Cosa è successo: abbiamo suonato da Solki il nostro primo disco tante volte in tanti posti, l’abbiamo visto prendere la forma di tutti i contenitori che siamo riusciti a trovare, con le nostre forze e con quelle di altri amici (cassette, cd, vinile), abbiamo cominciato fin da subito a mettere mano al materiale che, con tutto il tempo che abbiamo potuto impiegare, sarebbe diventato il secondo disco. Da persone, in parallelo, abbiamo portato avanti altri progetti per quanto riguarda le nostre ricerche musicali, abbiamo attraversato burrasche di sentimenti che hanno senz’altro toccato tutte le corde, incluse per forza anche quelle che tengono su “Peacock Eyes”. Non ci sono state bacchette, non necessariamente magiche, che in questo frattempo ci hanno toccato. La gavetta è indefinita e tagliare corto è impraticabile. Con questi fatti o si fa pace o ci si prende a schiaffi facendo fiorire le frustrazioni come dei bei lividi. I Solki di oggi sarebbero finalmente pronti a eseguire correttamente le canzoni del loro esordio.
Ci spiegate la scelta del titolo e l’influenza di un animale come il pavone sulla scrittura dei nuovi brani?
Il pavone abbracciava e accoglieva bene tutti i brani semplicemente essendo se stesso; dispiegava alcuni significati anche ai nostri occhi, e appunto ogni occhio di quelle piume metteva a fuoco un brano e i suoi abitanti. È un animale che non giudica ma che viene giudicato vanitoso e stronzo ma è pieno di retroscena interessantissimi meno evidenti; maestoso quanto goffo e imbarazzante, vive una condizione difficile che è quella di essere appariscente e di cercare sempre il faro illuminante per fare innamorare ma per ottenere un briciolo di amore si deve disperare e sdarsi per un po’ di considerazione.
Alla produzione del disco c’è Alessandro Fiori (ex Mariposa). Che novità ha portato alla vostra musica e com è stato lavorare con lui?
Fare le cose con Alessandro è un’attività che per vicinanza di vedute e di progetti (ci intrecciamo tante volte, per esempio con l’etichetta Ibexhouse e con una delle band pop-punk che periodicamente mette in piedi, gli Stres) ci viene parecchio naturale. Il portato tecnico e artistico che ha messo a nostra disposizione prendendosi la briga di essere il produttore del nostro disco gli ha conferito un suono più carnoso, più arioso. Il primo disco che abbiamo fatto erano tutti nervi, ossicini e una manciata di microfoni; “Peacock Eyes”, pur giurando eterno amore al lo-fi, è per noi un passaggio di rifinitura che ci sembra la cosa più ad alta fedeltà che saremmo in grado di realizzare ora come ora. I passaggi cruciali sui quali Alessandro ha lavorato con grande intelligenza sono stati quattro: la registrazione delle parti strumentali di chitarre e batteria, che abbiamo inciso in presa diretta e quasi sempre al primo tentativo per cercare di mantenerci vivi e sporchi; l’incisione delle parti vocali di Serena, con cui Ale si è confrontato da cantante di pregio; le sovraincisioni di piccoli colori e arrangiamenti di violino, synth e harmonium che ci ha riservato in autonomia; il mixaggio, che ha fatto delle ristrettezze un tesoro di pulizia e precisione.
Il vostro calendario per la primavera-estate è fitto di concerti e impegni promozionali tra Italia e Centro Europa. Quali le sensazioni dopo un mese di tour e com’è il vostro rapporto con il pubblico?
Il pubblico è fatto di persone che al termine del concerto sciolgono le eventuali riserve, si fanno avanti e se non ci conoscevano già ci parlano come se avessimo intavolato una discussione che in quel momento, cioè a partire dalla fine dello “spettacolo”, diventa il terreno di un confronto, di una sorta di trattativa. Alle sensazioni, alle somiglianze, alle differenze che le persone ci raccontano si aggiungono sempre parole che per noi sono nuove, sono inedite, aggiungono suoni e senso alle canzoni per come le sappiamo. Le precedenti esperienze di gruppi musicali da strada a cui abbiamo partecipato, in particolare Blue Willa e Topsy The Great, erano accomunate da una specie di energia a flusso continuo che aveva tra i suoi effetti l’incarnazione, talvolta esplicitamente dichiarata, di una forza respingente. C’era, nel gioco, una certa crudeltà che nei Solki si è trasformata in una crudezza serena e franca. Però continuiamo a metterci nei pasticci!
Uno dei punti di forza di “Peacock Eyes” sta certamente nella maggiore varietà di registri del cantato di Serena. Che rapporto hai con questo “strumento” e quali sono le tue influenze e gli artisti preferiti in questo senso?
Ho un rapporto che esploro come posso e più che posso, ogni giorno la voce ha un suo equilibrio e anche delle voglie diverse da quelle di ieri o di domani, per questo è così difficile per me registrare, pensare di fissare un unico evento cantato, una canzone. Cantare è una gioia appagante che riesce a farmi sentire me stessa senza dubbi o paure. Ci sono una sacco di persone cose e suoni che mi hanno influenzato, per esempio adoro il suono della carta che si accartoccia e dei capelli che frusciano tra i polpastrelli.
(Matteo Maioli)