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L’appuntamento mensile con un contenuto di Mangiatori di Cervello, questo mese legato al tema “cinema” e pertanto in linea con tutti gli articoli da noi ospitati per Puorz du Cinema (attenzione che fra poco tornano anche i nostri aggiornamenti in tempo reale da Cannes, ovvero il nostro “Cannes Chiama Kalporz”)
Ci ha lasciato, il 26 aprile 2017, Jonathan Demme. Il regista e sceneggiatore premio Oscar per Il Silenzio degli Innocenti si è spento a 73 anni, a New York, dopo anni di malattia; aveva un cancro all’esofago, diagnosticato nel 2010.
Cinque anni dopo, grazie alle cure e a tanta testardaggine, era tornato con Dove Eravamo Rimasti con la Streep scatenata nei panni di una madre trasgressiva, rockstar “a tempo pieno”, ribelle che colpiva in piena faccia come una chitarra di Hendrix spaccata sul palco. C’era tutto il suo amore per la musica, già provato coi documentari come Stop Making Sense sui Talking Heads, e l’avversione per il mondo tradizionale e conformista dell’America bene, dove una donna che insegue i suoi sogni è vista con rancore e una punta di disprezzo.
Demme era tornato, lo stesso anno, come presidente della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia. Per quanto sia ricordato spesso solo per Il Silenzio degli Innocenti, Demme aveva debuttato come regista e sceneggiatore del semi-sconosciuto Femmine in Gabbia, del 1974. Per quanto la pellicola sfiori (piacevolmente) il B-movie e abbia toni erotici spinti fino al grottesco-inverosimile, vi si scorgono già quelli che saranno i capisaldi del cinema di Demme.
Il confine labile tra Bene e Male
Demme non dà mai una definizione di Bene supremo nei suoi film, né lo identifica con un personaggio, un’azione o un luogo preciso. Per quanto esso esista, così come il Male, nessuno dei due è chiaro. Se presi singolarmente sono evidenti, come i personaggi di Hannibal Lecter e Clarice Starling ne Il Silenzio, ma ecco che quando si toccano, si sfiorano, e li percepiamo accanto l’uno all’altro, vicino e prossimi, il loro confine diventa nebbioso e sfocato. Non c’è il punto chiave oltre il cui tutto è male, bensì troviamo un’acqua torbida, fatta di domande e situazioni sfaccettate dove una sola interpretazione è troppo poco. Questa è una firma di Demme, che è “troppo umano” per prendersi il diritto di tracciare una riga oltre cui ogni cosa va condannata di malvagità. Una caratteristica che permette di creare un altro dei suoi capisaldi: la ribellione realista.
La ribellione realista
A provocare ci vuol poco, soprattutto in America. Per ribellione realista intendo quella provocazione tutta figlia della sua epoca, che non si limita a far salire il prurito sul momento attraverso linguaggi scurrili o immagini scandalose e indecenti, ma ha per obbiettivo i tabù della società del proprio tempo, i suoi limiti e le lotte che infuriano nel sottosuolo di essa. Tra le righe di Femmine in Gabbiacorre l’inno ribelle dell’emancipazione sessuale della donna, che viene messa alla stregua dell’uomo nel momento in cui ciò che accade nel carcere femminile pare rubato pari pari da un prison-movie al maschile, genere in voga ai tempi, per quanto riguarda la violenza, il linguaggio, gli avvenimenti. Pure la nudità spinta, voluta e mostrata con insistenza è qualcosa di più che semplice erotismo gratuito, è una ribellione “sottile”, che mascherandosi da film di serie “quasi B” se ne frega delle convenzioni morali e dei limiti della decenza imposti dalla sua epoca.
La musica, unica guida e unica regina
Demme amava la musica, ed era cresciuto impregnato dei suoni dell’America del glam rock, delle derivazioni del punk e delle grandi band che univano gente di ogni razza, età ed estrazione sociale. Già in questa primissima opera ci sono brani degni di nota non solo nel cinema, ma nell’universo musicale stesso: John Cale, Mike Bloomfield e molti altri, solo in Femmine in Gabbia. Più avanti, coi documentari, Demme darà ulteriori prove del suo amore viscerale per la musica che l’ha cresciuto. In seguito, ne Il Silenzio, Howard Shore creerà il soundtrack della perfetta tensione, consacrandolo a capolavoro del thriller.
In Philadelphia si ritrovano tutti i capisaldi del cinema di Demme, qui più maturati, portati allo scoperto, esposti con violenta crudezza agli occhi ancora pudici e conservatori dell’America degli anni ’90. Il regista non si pone il problema di mascherare la provocazione o di usare stratagemmi per passare un messaggio ribelle, è tutto chiaro come il sole, punto: l’omosessualità, la discriminazione razziale e sessuale, l’AIDS trattata come “malattia morale e mortale”, la lotta contro un sistema antiquato e il diritto di eguaglianza per due individui accomunati dalla loro professione di avvocati e dall’essere una sorta di intoccabili, emarginati perché considerati “degradanti” per la società. Sulle note commoventi di Howard Shore, Peter Gabriel, Maria Callas e col filo argentato dell’inno Streets of Philadelphia di Bruce Springsteen, si snoda quest’urlo di giustizia e ribellione che qui, e solo qui, trascende i concetti di Bene e Male.
Ma non dubitate, la linea d’ombra tra Male e Bene tornerà sempre: “siamo solo umani” sembra dirci Demme attraverso gli occhi pacati e penetranti di Denzel Washington nelle vesti di Bennet Marco in The Manchurian Candidate. È il 2004, Demme è un regista consacrato e provocatore che siede nell’Olimpo accanto a Friedkin, De Palma e Cimino, ma la sua indole non è cambiata. Sono cambiati i tempi, e infatti la trama è moderna, attuale per quelli “made in ’90s” come me. Una storia politico-militare, che accenna alle molte teorie del lavaggio del cervello e degli agenti dormienti, definite oggi “teorie del complotto”, forse per comodità. Più labili che mai le scelte, il Giusto e lo Sbagliato, e agghiacciante la somiglianza tra la finzione del film e gli avvenimenti storici, riconducibili alla politica statunitense, a svariati episodi realmente accaduti durante la Guerra del Golfo, la guerra in Iraq, persino l’odierno conflitto in Siria.
Demme conosce il mondo e conosce l’essere umano, forse fin troppo per essere così neutro, per non giudicare mai cos’è il Male, per non additare mai nessuno ma accennare sempre e soltanto, in modo sottile ma affilato e tagliente come un bisturi, alla realtà politica e sociale in primis dell’America, ma anche della nostra Europa.
Il 26 aprile è stato un giorno di lutto, passato un poco in sordina a causa del trafiletto succinto che molte testate gli hanno dedicato. Non c’è molto da elencare, non si sa bene cosa dire di questo regista enigmatico e acuto maestro della supence creata attraverso il dubbio. “Hai paura perché non sai di cosa aver paura” è l’ossimoro chiave della tensione perfetta ideata da Demme, madre di miliardi di imitazioni e di un suo macro-genere di thriller e horror psicologici e geniali. Ma siate cauti: i sequel, prequel e remake sul personaggio di Hannibal Lecter sono tutto tranne che eredi del genio di Demme. Se ci entrate in contatto, disinfettate con alcool e fuoco e correte subito da un medico.
Anzi no, correte in una cineteca.