Share This Article
Il 1997 fu un anno pieno di sorprese, e di svolte. Abbiamo già celebrato il ventennale di “Blur”, un album un po’ sottovalutato ma alla lunga importante, e chiaramente è arrivato anche lo snodo della ricorrenza di “OK Computer” (pubblicato il 21 maggio 1997 dalla Parlophone). Pur consapevoli dell’invasione mediatica di scritti su questo album, non potevamo sottrarci all’analisi postuma ed attuale di questo capolavoro. Non era possibile far finta di niente, perché da lì in poi si è creata una rivoluzione digitale che ci ha prima ammaliato, poi pervaso fino a possederci. All’inizio era solo un “OK Computer”, tipo “Ok, fammi vedere cosa sai fare!”. Ora è un’immersione compulsiva nel digitale.
Come sapete i Radiohead faranno uscire il 23 giugno 2017 una nuova versione dell’album, che per non fare confusione si intitolerà “OKNOTOK”: troviamo le dodici tracce originali rimasterizzate, otto B-side e le registrazioni in studio originali di “I promise”, “Lift” e “Man of war” (mai pubblicate prima). L’album uscirà in download, in CD e in formato triplo vinile da 180 grammi, e da luglio una Boxed Edition contenente tre vinili da 180 grammi, un libro con i testi e 30 disegni, un libretto con gli appunti presi da Thom Yorke all’epoca della composizione e registrazione del disco, un secondo libretto con bozze e schizzi preparatori di Stanley Donwood, e infine una musicassetta C90 con un mix realizzato a partire dai demo e dalle sessioni di registrazione.
Insomma un lavoro monumentale, ma siamo o no diventati “più in forma più felici più produttivi”?
(Paolo Bardelli)
1. Airbag
“Airbag” è il primo brano di “OK Computer”, uno di quelli che ha su di sé più responsabilità degli altri: è quello che tutti sentiranno quando metteranno su il disco la prima, la seconda volta e tutte quelle a seguire. Precede, nella tracklist, uno dei brani più famosi dei Radiohead, “Paranoid Android”. A quest’ultima non ha niente da invidiare: un riff di chitarra ipnotico da il via al disco, per lasciare spazio dopo poco alla voce, in questo caso pulita, di Thom Yorke.
Il basso, nel frattempo, è un passo avanti a tutto il resto, con una linea che sembrerà riproposta in altra veste in “15 Steps” da “In Rainbows”; è l’ultimo tassello di un puzzle strumentale e vocale che, finalmente completo, è pronto per trasportare nella dimensione futuristica di “Ok Computer”.
Siete pronti ad iniziare il viaggio?
(Matteo Bordone)
2. Paranoid Android
Seconda traccia dell’album e primo singolo estratto, il titolo della canzone si riferisce a Marvin l’androide paranoico, un personaggio della serie “Guida galattica per gli autostoppisti” dello scrittore inglese Douglas Adams, radio commedia diventata una serie di 5 romanzi. Thom Yorke in più interviste ha sottolineato come i Beatles, ed in particolare il loro innovativo modo di “assemblare” più moduli melodici in un’unica canzone, siano stati modello di riferimento nella composizione del brano.
Nella prima parte, l’arpeggio acustico s’intreccia con il fraseggio al gusto flanger dell’elettrica di Greenwood, sinistri versi cantati in effetto radiofonico ed una base ritmica fatta di bordo rullante e idiofoni. Tra richiesta di solitudine e promesse di vendetta, l’entrata della distorsione è preceduta da un basso che esegue ansiogene scale minori che rimandano a improvvisazioni jazz.
La parte centrale esprime il lancinante digrignare i denti per via di un fastidio unicamente racchiuso nella mente, per poi confluire in una sezione corale, eterea e religiosa. “You don’t remember” interrompe la ballata con il ritorno del delirio distonico di suoni elettrici, che danno sfogo al malessere che li partorisce. Liricamente accompagnate da una pioggia rassicurante ed avvolgente, come spettri ricompaiono ancora una volta i cori: lenti e spettrali, asseriscono che “Dio ama i suoi figli”.
Il finale è tronco, improvviso, una liberazione dall’ossessione, il silenzio dopo il panico ed il vomito, dopo note acide ed elettroniche da navicella spaziale, come quando dopo una cinica riflessione nata dall’isolamento tra le persone, si ritorna ad osservarle da dietro la finestra, protetti.
(Francesco Fauci)
3. Subterranean Homesick Alien
Un pezzo stellare come “Subterranean Homesick Alien” rischia ancora oggi di passare inosservato, intrappolato impietosamente dalla tracklist in mezzo a due dei capolavori assoluti di OK Computer (“Exit Music” e “Paranoid Android”).
Già, OK Computer. L’album in questione ha rivoluzionato l’idea di musica di così tante persone, che ogni suo tassello merita un personale momento di gloria. Ed è giusto che lo abbia anche “Subterranean Homesick Aien”, considerata l’immensa qualità di questa composizione.
Tra tutte le tracce dell’album, la numero tre è probabilmente la meno criptica dal punto di vista del testo, e, passatemi il termine, una delle più solari, se si guarda all’atmosfera.
Il protagonista della storia sogna il suo rapimento da parte dagli alieni, un sogno vissuto non come esperienza traumatica ma, al contrario, come fuga liberatoria dal perenne senso di spaesamento che contraddistingue la sua vita metropolitana.
In primo piano ci sono quindi alcuni dei temi cardine di OK Computer, come l’incapacità di vivere all’interno della società, l’incomunicabilità con gli altri, e un inspiegabile (ma costante) stato di inquietudine.
Questa volta però, il tutto è raccontato con leggerezza e ironia, con gli intrecci “cosmici” delle chitarre (storico l’arpeggio pre-strofa) di Jonny Greenwood ed Ed O’Brien a suggellare in modo magistrale questa surreale confessione. L’uptight ripetuto in modo ossessivo nel refrain, ci ricorda che siamo comunque davanti a un pezzo dei Radiohead.
Nonostante ciò, il brano riesce comunque a trasmettere calore ed empatia a chi è in ascolto. Molti di noi, in fondo, hanno provato almeno una volta il desiderio di essere strappati dalla routine della nostra quotidianità, di sorvolare il mondo dall’alto, e di provare a capire qualcosa in più dell’assurda realtà in cui viviamo.
(Stefano Solaro)
4. Exit Music (For a Film)
“Exit Music” non è una canzone, è un archetipo: rappresenta tutte le storie d’amore non compiutesi, e lo fa nella cornice inevitabile della drammatica storia di Romeo e Giulietta, parabola di tutti amori che non si realizzano ma che avrebbero dovuto. Gli accadimenti sono noti: ai Radiohead viene domandato un pezzo per i titoli di coda di “Romeo+Juliet” di Baz Luhrmann, vedono gli ultimi trenta minuti di film e rimangono colpitissimi al punto di scrivere immediatamente il brano. Una canzone con una struttura a crescere che smuove le budella: nasce essenziale con chitarra e voce dolente di Thom (è la parte che ascoltata live di sera, con la brezza fresca in faccia e il respiro zittito, è una delle 20 cose per cui val la pena vivere), “respira” con le voci-synth di Jonny Greenwood nel ritornello, esplode con il basso distorto di Colin e azzera la saliva in quel “now we are one in everlasting peace” urlato al cielo.
La chiusa è tremendamente amara, perché se si soffoca l’amore e la vita, allora il soffocare diventa anche un’imprecazione. Tutto è immobile, tutto è fermo, si può solo onorare quello che è stato e quella fuga mai esistita, momento sublime in cui tutto poteva essere mentre nulla è stato.
(Paolo Bardelli)
5. Let Down
Ho sempre pensato, ascoltando “Let Down”, che Jonny Greenwood abbia scritto le parti della chitarra per farci provare la stessa sensazione di stordimento che Thom Yorke racconta nel testo. È come se disegnasse una linea che vaga, si intreccia, accelera e rallenta, fino a chiudersi in uno strano disegno simile alle mappe dei trasporti urbani di una metropoli, la stessa immagine che compare all’inizio del pezzo: “Transport, motorways and tramlines / Starting and then stopping / Taking off and landing“. Una specie di opera sensoriale, un vortice che ci avvolge, ci abbraccia, dolceamaro, commosso e caldo, finché, la voce di Thom Yorke e la chitarra di Jonny Greenwood non decidono di strapparci l’anima, con quel climax sul finale, maestoso e catartico, che chiude il racconto dello smarrimento dell’uomo moderno con una coda luminosa, noise, pulsante di vita.
(Enrico Stradi)
6. Karma Police
Vent’anni fa avevo una ragazza che sapeva ricamare e cucire. Non solo questo ovviamente, ma questa sua dote la spinse a regalarmi un cuscino blu con tutto il testo di “Karma Police” intarsiato a spirale. Dormii per anni su quelle parole senza mai coglierne il vero significato, ma quel “I lost myself” finale, ripetuto più volte, ben rappresentava il mio stato di giovane smarrito in un momento di transizione. Ok Computer, Ok nuovo mondo. I Radiohead erano pronti. Io ovviamente no. Un canzone e un disco che hanno rappresentato un cambiamento, musicale e personale. Da un lato il tuffarsi nei 2000 senza paracadute, accettandone le conseguenze, dall’altro la voglia e soprattutto la necessità di rimanere ancorati al passato, alla tradizione, alle radici. Perché quel pianoforte iniziale è tutto tranne che un atto di sottomissione alla tecnologia, è un rigurgito di fiero attaccamento all’emozione. Poi arrivò “Kid A” e accettai tutto ciò. Il tempo che passa, modifica, ingloba, destabilizza. La tecnologia che ci assorbe, completamente. Ma ho sempre avuto paura di una profezia che mette da parte l’uomo e glorifica la macchina. Così ho accantonato per un periodo la testa di radio, mi sono gettato nel calore del Soul e mi sono avvizzito le cellule cerebrali con la musica sperimentale. Ho smesso di perdermi nella ricerca della novità, ho dato delle radici al mio presente smarrito. Mia moglie oggi non sa ricamare ma cucina ottime amatriciane. Non ho più paura di perdere me stesso perché vive in tutto quello che sono stato. Mia figlia dorme beata su quel cuscino, ma l’unico Karma che conosce è quello occidentale. Ok Computer. Ho messo il cuore in pace.
(Nicola Guerra)
7. (hidden track) Fitter Happier
Bastano meno di due minuti per creare una sensazione di angoscia inaudita. Una voce robotica che ci dà consigli su come rimanere in forma, su come essere più produttivi e più felici; rumori elettronici di sottofondo, qualcosa che fa pensare ad un ambiente completamente tecnologizzato e immune da qualsiasi interferenza emotiva. L’unica traccia di umanità è un pianoforte che piange solitario in mezzo al nulla, ad evocare ricordi rotti, sogni spezzati, desideri incompiuti… È un brano che mi ha sempre fatto pensare ad un non-luogo, a quella strana sensazione di assenza di vita e di socialità che si prova in una una qualsiasi stazione metropolitana o in aeroporto.
Bastano meno di due minuti, e la sensazione è incredibilmente più inquietante della morte: è la paura di rimanere intrappolati in un mondo totalmente trasfigurato, dove le uniche tracce di umanità sono dei relitti sonori e la sola prospettiva possibile è quella di rimanere ad ascoltare per l’eternità quella voce fredda e priva di vita, che continua a ripeterci “no paranoia”, “no chance of escape”.
(Gianpaolo Cherchi)
8. Electioneering
L’ottava traccia di “Ok Computer”, “Electioneering”, è da sempre anche la mia favorita del disco. Sarà che la immagino concepita dalla band dopo svariati ascolti sia del Neil Young periodo “Ragged Glory” che degli Smiths di “Strangeways, Here We Come”; o sarà per quella stravagante disposizione delle liriche nel booklet che ricorda così da vicino l’opera di Guillaume Apollinaire. In realtà “Electioneering” si colloca nel girone dedicato alle canzoni di protesta come “2+2=5” da “Hail To The Thief”: qui troviamo tutti insieme appassionatamente i disordini sociali ai tempi di Margareth Thatcher, i disastri del Fondo Monetario Internazionale e le teorie sulla propaganda di Noam Chomsky. Il cuore rock’n’roll nelle trame chitarristiche d’alta scuola, l’opera d’arte nello spettacolare intro da colonna sonora di film western, unico nella produzione dei Radiohead.
“riot sheelds.
voodoo economics.
its just business.
cattle prods and the IMF.
I trust i can rely on your vote.
whenigoforwardsyougobackwardsansomewerewewillmeet”
(Matteo Maioli)
9. Climbing Up the Walls
Rumori di sottofondo a un giardino notturno. Prima dell’attacco, della canzone e di panico. La voce di Thom Yorke sibila atonale e stanca, quasi che stesse accompagnando la propria ombra all’apice non solo di un muro, ma dello stress. Nel mondo pre-digitale già digitale l’angoscia si infila sottopelle nella sfiancata depauperazione di un ritmo che altrove si sarebbe detto marziale. Ora domina il terrore di sé, del proprio goticismo, del proprio riflesso: “Perciò metti al sicuro i bambini stanotte / Chiudi gli occhi nell’armadio / Non piangere e non suonare l’allarme”. No. Non ha senso piangere perché non ha senso nulla. Si trascina tutto, come un incubo. La frenesia da guerrilla urbana di “Electioneering” è dietro le spalle, arriverà la pace pre-mortem con “No Surprises”. Ma l’adesso è un brano che sfila le unghie al pop per lasciargli sanguinare gocce di Penderecki. Il rock britannico non aveva dimestichezza con quello stordire di archi, non d’accompagnamento ma di squartamento. La verginità è perduta. “Ti sentirai sola e saprai / che dovunque ti giri, io ci sarò”. Ma siamo certi di sentirci pacificati da questa dichiarazione?
(Raffaele Meale)
10. No Surprises
Nel ’67 i Velvet Underground erano riusciti a far passare il messaggio di un testo cupo, che parlava di depressione e alienazione, attraverso una facile e docile melodia cullante, che sarebbe poi diventata una dei simboli del gruppo newyorkese nonchè una delle canzoni più famose del pop.
Parlo ovviamente di “Sunday Morning”; trenta anni dopo i Radiohead alle prese che il disco che avrebbe svoltato la loro carriera riprendono quella lezione per comporre la musica di ‘No Surprises’, uno dei pezzi più forti e paranoici di ‘Ok Computer’.
Il testo, che si appoggia ad un jingle quasi infantile, lascia poco spazio ad interpretazioni: è la denuncia di Thom Yorke alla società contemporanea, che si accontenta del minimo indispensabile come se fosse una concessione. “Una casa così bella ed un giardino così bello/ Senza allarmi e senza sorprese”, questo è il lamento dei Radiohead sull’uomo contemporaneo, schiacciato nella propria bolla di apatia, chiedendo solo la tranquillità, una soffocante tranquillità. “This is my final fit/ My final bellyache with/ No alarms and no surprises/ No alarms and no surprises please”.
(Matteo Mannocci)
11. Lucky
La rara intensità e l’impatto live dei Radiohead sono sempre stati alimentati da un codice di colori nell’impianto luci che guida lo spettatore in un’esperienza davvero multi-sensoriale. Quando esplode il catartico chorus di “Lucky” si accendono delle luci calde, tra il rosso e l’arancio, in un’ideale fuoco di passione che ben rappresenta uno dei brani più ottimisti e positivi della raccolta. Uno dei primi brani scritti dalla band, è ancora erede delle sonorità degli R.E.M. e suona molto classico, chitarristico ed essenziale nella struttura rispetto agli altri classici di “Ok Computer”. Tra ironia sul Capo di Stato che avrebbe chiamato Thom Yorke per nome, la misteriosa Sarah della coppia che scampa all’incidente aereo, “Lucky” resta uno dei brani più coinvolgenti ed emozionanti della storia della band.
(Piero Merola)
12. The Tourist
Dopo “Lucky” un altro brano, questo però scritto da Jonny Greenwood, continua a dare voce alla speranza. “The Tourist” è una ballad emozionante che usa la figura del turista in chiave allegorica, come a rappresentare il senso di spaesamento e di infinita curiosità dell’uomo ai tempi del boom tecnologico (“Hey man, slow down”). I toni sono meno cupi e ossessionati, l’ammaliante chorus è un altro dei momenti emotivamente più forti della raccolta. E quel finale che si riallaccia, in un ascolto da eterno ritorno ai clic introduttivi di “Airbag” porta a compimento nel modo più elegante e significativo possibile il concept di “Ok Computer”.
(Piero Merola)