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La morte di Chris Cornell è stato un riaffiorare di ferite, per molti. Il grunge è stato un movimento doloroso, che ha fatto della dolenza un possibile sbocco di ribellione ad un mondo che non apparteneva a chi aveva vent’anni allora. Come nessuna era e nessun mondo appartiene a chi ha vent’anni. Ogni generazione si trova i propri rifugi. La nostra ha avuto la voce disperata di Kurt a lanciare il proprio grido, di Cobain e degli altri perché tutte le band di Seattle avevano quel modus. Anche Cornell era un’anima in pena. “Follow me into the desert“, cantava.
Non ho parole o conoscenze tali per scrivere qualcosa di interessante su Chris Cornell, nella scorsa settimana ho letto sui magazine online tanta fuffa in merito, forse per clickbait o forse per esigenze reali chi lo sa, e un paio di articoli interessanti. Kalporz ha preferito erigere un muro nero, il lutto, che abbiamo ritenuto più consono. Quando succedono i lutti chi li subisce non sta attento alle frasi che gli vengono rivolte, ma riceve semplicemente forza dal sapere di avere persone accanto. Ecco, Kalporz c’era, ma non aveva molto da dire.
Dopo la perdita di Cornell, che mi ha profondamente colpito, solo due concetti, forse poco interessanti o forse sì (spero), si sono manifestati nelle serate in cui ho inevitabilmente – come molti – ritirato fuori i dischi dei Soundgarden.
Il primo è il punto da cui ho iniziato: venire a conoscenza che alla veneranda età di 52 anni il buon Chris dovesse ancora scendere a patti con l’ansia e non si fosse pacificato con la vita ha riconfermato questa mia teoria sul dolore. Chi suonava quella musica soffriva davvero, noi ce n’eravamo accorti ed era per quello che ci arrivava: ci sentivamo partecipi a quell’afflizione perché era la nostra, ed era autentica. Da allora i nativi degli anni ’70 e ’80 ricercano quell’autenticità come cani da tartufo: la musica può essere bianca o nera, rock pop o soul, potente o fragile, di sopra o di sotto ma l’importante è che sia tremendamente autentica. Non estetica. Ora siamo invece in un momento storico in cui tutto è estetico (devo argomentarlo?), ed è per questo che ogni tanto mi trovo un po’ scollegato a quello che funziona ora. Ma è giusto così, ogni generazione ha le sue sensibilità. Non è che “era meglio allora”, non sopporto questo ragionamento, piuttosto è vero che ogni generazione giovane ha le medesime esigenze e trova delle risposte diverse.
In tutto questo si è rifatta strada tra i miei dubbi una scena di “Singles: l’amore è un gioco”, il film che più di tutti ha raccontato noi ventenni degli anni ’90 alle prese con quella musica di espiazione e con le difficoltà in amore (siamo stati la prima generazione a spostare le lancette del matrimonio dai 25 ai 35, e ora sappiamo che va anche peggio…): ci sono i Citizen Dick, band immaginaria il cui frontman (convintissimo) è Matt Dillon, che guardano un documentario sulle api. La band è presissima, Eddie Vedder (che impersonifica un componente del gruppo) zittisce Matt più volte quando lui si distrae dalla visione per pontificare sulle ristrettezze della scena di Portland. Perchè un documentario sulle api? Un caso o un punto fondante la nostra generazione?
Credo nessuno dei due, forse un indizio inconscio e inconsapevole: eravamo così disconessi e fuori fase che invece le api – che hanno dei ruoli definiti e una precisa organizzazione – ci davano la sicurezza di chi ha il suo posto nel mondo.
Ed è questo che mi distrugge: Cornell non l’aveva ancora trovato, il suo posto nel mondo.
(Paolo Bardelli)
foto in alto di Ross Halfin, scattata il 24.6.2007: Chris Cornell con la figlia Toni, 2 anni e mezzo allora, e suo Christopher Nicholas, 19 mesi, durante un concerto ad Hyde Park.