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E’ stato un concerto speciale, quello di ieri sera a Firenze dei Radiohead. Speciale non vuol dire stratosferico, significa che per diverse ragioni che si proverà ad analizzare l’impressione è stata quella di trovarsi di fronte ad una band che ci tenesse particolarmente a questo appuntamento. Innanzitutto può essere che le frequentazioni marchigiane di Jonny (e Thom) abbiano acuito il rispetto verso il pubblico italiano, il sentirsi a casa. Lo stesso Thom tra una canzone e l’altra ha pronunciato poche parole in italiano, ma con un accento invidiabile di chi ha nell’orecchio la nostra lingua.
Il secondo punto (oggettivo) per l’eccezionalità della serata è stata la presenza contemporanea in scaletta di tre brani amatissimi da ogni buon fan della prima ora, ovvero “Street Spirit”, “Exit Music” e “Fake Plastic Trees”. E’ nota una certa ritrosia del gruppo a non compiacere il pubblico con scalette preconfezionate o “telefonate” (basti ricordare la querelle passata ma durata per lungo tempo sulla scelta di non suonare “Creep”), per cui il regalo così marcato di questo insuperabile trittico non può che significare una serata rara e preziosa.
Infine, ultima annotazione, si è assistito al ritorno del vero pubblico dei Radiohead: durante la tournée del 2012 si era notata una certa trasformazione dei concerti della band di Oxford in evento, quel fenomeno per cui non è importante chi suona, conta esserci e quindi alla data di Bologna ad esempio ci fu un completo disinteresse di parte del pubblico al live, con crocicchi rumorosi, dialoghi continui, urletti come ad un concerto di Ligabue. Il che, mentre Thom Yorke canta, è inaccettabile. Ieri sera invece il rispetto è stato massimo, davvero impressionante se si pensa che erano presenti 50.000 persone: in tutti i punti in cui le atmosfere si sono fatte confidenziali e raccolte, come ad esempio nel pre-finale di “Weird Fishes/Arpeggi” o nelle tre canzoni-meraviglia di cui sopra, si è raggiunto un livello incredibile di silenzio estatico, ed è difficile da spiegare sentire che 50.000 persone stanno trattenendo il respiro contemporaneamente per cogliere tutte le sfumature del pathos di Yorke.
Fatte queste premesse, descrivere il live è invece semplice: prima hanno suonato per loro, e poi per noi. E’ parso infatti che nella prima parte del concerto i Radiohead abbiano come inscenato una jam, una prova libera en plain air. L’approccio è stato jazzistico, quell’intenzione di essere sciolti nelle reinterpretazioni per puntare sull’estro e sull’estemporaneità più che sull’impatto: nel dipingere due songs così impressioniste come “Daydreaming” e “Desert Island Song”, nella bolla sonora di “Ful Stop”, negli stop-and-go di “15 Step” e negli altri brani della prima dozzina i Radiohead hanno lasciato la macchina in folle in discesa. Tranne che per la parte ritmica (Colin Greenwood monumentale) per gli altri è stato decretato il liberi tutti. Con risultati alterni, che alle volte che non sono arrivati totalmente al pubblico, rimasto un po’ spaesato come se stesse assistendo ad una prova generale e non al concerto vero e proprio, e con qualche slegatura di troppo.
Da “Exit Music” in avanti, e soprattutto dopo l’encore, è cambiato tutto. E’ stato come se convintamente la band avesse voluto regalare ai fans proprio quello che gli stessi anelavano: le canzoni più adorate, suonate con l’impatto e la precisione di una volta, e soprattutto con la stessa voglia. E in quest’ottica anche il diverso mood caraibico di “Paranoid Android” è parso naturale. Poi chi ha frequentato in passato i live dei nostri può capire bene, senza bisogno di tanti giri di parole, cosa significhi sentire l’attacco di “Street Spirit” e comprendere che, finalmente, l’hai raggiunta un’altra volta dopo averla inseguita per tanto (l’ultima mia fu Ferrara 2003, la prima data, quella del venerdì). Una canzone drammatica che parla di guardare il diavolo dritto negli occhi, un brano che lo stesso Yorke fatica ad interpretare live perché conscio del mistero sotteso a quel fade out, all’eterno scomparire (e rifarsi) della vita.
Ma la sorpresa è stata doppia perché, a causa proprio di questa drammaticità, molte volte “Street Spirit” chiude i concerti, per cui i secondi encore sono stati totalmente inaspettati. E da brividi: anche qui, nessun recensore potrà mai mettere in parole cosa vibra sulla schiena quando Thom canta “If i could be who you wanted all the time”. E’ un attimo di eterno.
Ed è comunque difficile raccontare la contentezza nello sguardo di Yorke quando – terminata “Karma Police” – ritorna da solo davanti alla folla a suonare solo con la chitarra il ritornello per farlo cantare modello karaoke. Qualcuno potrebbe inorridire, ma è stato un gesto bellissimo, che ha chiuso in maniera straordinariamente empatica un live iniziato in modalità un po’ solipsistica.
Cari ragazzi, ci vediamo in ogni caso domani.
(Paolo Bardelli)
Foto di Gabriele Spadini