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La polvere di cui parla la Halo non è materia stellare, niente comete che vagano nello spazio: in Dust c’è solo il paranoico aroma della terra, dell’umanità. Una ricerca spasmodica del suono, che è iniziata nel 2012 con “Quarantine”, e culminata in questo lavoro che non mette d’accordo proprio tutti, ma fa ribollire il sangue per complessità, caos e bellezza, in particolare in alcuni brani.
In “Jelly”, secondo pezzo dell’album, c’è un pochino il riassunto di quest’opera: le frasi sono contornate da ritmi, e vengono continuamente spezzate da atmosfere sempre nuove che cambiano e volteggiano in ogni traccia del disco. Durante tutto l’ascolto la mia testa è stata in una sorta di immersione catatonica tra un disco di Lorde, un lavoro di Feist e la visione a loop di Twin Peaks.
Negli intermezzi dell’album è possibile sentire l’importanza del jazz e della musica africana nella sua formazione artistica, infatti restiamo sempre sospesi su un ponte di continenti che abbraccia le più varie tradizioni musicali, fino ad arrivare al pop.
Le brevi frasi recitate in alcune canzoni, anche in loop, si incrociano in un’enigmatica ricerca delle parole. La Halo, forse involontariamente, usa quasi un ritmo poetico alla Emily Dickinson: lo vediamo dalla lucentezza e dalla chiarezza delle frasi che, seppur brevi, rimangono evocative e fondamentali per apprezzare Dust.
L’immagine che viene fuori, e basta vedere pezzi come “Szgy” e ‘Do U Ever Happen”, è quella di una fuga, una caccia, una ricerca. “Dust” è in sostanza una stanza degli specchi dei vecchi lunapark, dove non si ha la reale percezione della posizione. Dal punto di vista puramente artistico la Halo sembra trovarsi in un momento simile a quello vissuto da Matisse, durante la prima guerra mondiale, le figure rappresentate e contornate sia nelle canzoni di Dust che nei quadri del pittore sono assolutamente astratte, poco comprensibili ma non per questo perdono peccano in bellezza.
Dust è esoterico al pari di alcune colonne sonore, nel disco si può trovare l’oscurità che scatta in mente quando si ascolta Angelo Badalamenti o quando parte il theme di Stranger Things.
Laurel Halo è la chiave esotica, contemporanea di cui abbiamo bisogno e non lo sapevamo, fino ad oggi. Il suo lavoro non è semplicemente una ricerca del suono, ma qualcosa di più profondo che probabilmente non capiremo mai, nemmeno al centesimo ascolto, ma il bello è lì nell’incredibile capacità di nascondere bellezza nell’imperscrutabile oscurità.
85/100
(Gianluigi Marsibilio)