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Presente quando hai una di quelle settimane terribili dove succede di tutto? Ecco. Riassumendo, ospedali, l’essere licenziata e riassunta nell’arco di due giorni e altre sofferenze varie ed eventuali avevano minato l’equilibrio zen che tanto ho faticato ad ottenere in questo anno pazzo e scombinato.
Sospiro, esco, vado a vedere gli Arab Strap al Covo, magari passa.
Birra, saluti, sigaretta, birra, altri saluti, appostamento in transenna. Tutto regolare, solita noiosa routine del fotografo/critico musicale.
Poi salgono sul palco Moffat e compagni, ormai un po’ ingrigiti dal tempo ma sempre sul pezzo e va già meglio.
D’altronde, cosa puoi aspettarti dal gruppo che ha ispirato uno dei dischi capostipite dell’indie degli ultimi 20 anni, The Boy With The Arab Strap dei Belle And Sebastian? Hanno scritto la storia, in silenzio, dalle retrovie e si capisce subito il come ed il perché.
Fin dalle prime note ti senti catapultato in un mondo a parte fatto di violini, croci celtiche, danze nei boschi. La voce melliflua del sig. Aidan che si fonde con le note distorte, la drum machine che bussa nel cervello, è tutto perfetto, non una nota fuori posto eppure quel senso di perfezione che ti formicola le narici, ‘ah ma perfetto è asettico’, non esiste proprio. Rubo la frase che una ragazza mi ha detto poco tempo fa: ‘si narra che esistano persone che non si sanno emozionare ad un concerto come questo: io non ci credo’. Altro concerto, altro contesto, realtà universale. Chiudo gli occhi, spengo il cervello, mi lascio trasportare, e tutto si fa più leggero tra una Girls Of Summer, una Don’t Ask Me To Dance, una The First Big Weekend animatissima e una (Afternoon) Soaps, chiusura di un live che probabilmente tutto il giardino del Covo, pienissimo di gente incantata come me, non si scorderà tanto facilmente.
Birretta, sigaretta, altre chiacchiere, saluti e finalmente casa, a sognare Falkirk e i paesaggi scozzesi. Alla fine un po’ è passata, grazie Arab Strap.
(Chiara Viola Donati)