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“Ooh yeah, i feel it all over my body
Let me out, let me go
It’s a freakshow”
Il lavoro di Obaro Ejimiwe, in arte Ghostpoet, preannunciato dal singolo super politico “Immigrant Boogie”, è finalmente uscito e con pezzi come “Freakshow” e “End Times”, il produttore indipendente britannico tira una linea, dritta e pesante, su un modo di ragionare che rende la vita piena di inquietudini in questo 2017, la critica è alla profonda cultura del sospetto che ha reso il mondo più grigio, come le atmosfere di “Dark Days + Canapés”.
Il disco suona come un backup, come una manovra di decostruzione dell’hardware interno dell’artista. Proprio questo diventa, nel giro di pochi pezzi, il più grande pregio e difetto dell’album, che rimane seduto su se stesso e non rispetta forse pienamente le attese cresciute in me, anche durante l’esibizione indescrivibile al Siren Festival di Vasto.
Il suo è un respiro globale, che forse si perde in discorsi troppo grandi persino per uno del suo calibro. Nel suono il disco è un’ottima prova, in particolare in brani ritmati e pieni come “Many Moods at Midnight”, ma si perde in una dispersione di fondo e in delle atmosfere forse piatte.
Il lavoro è una tesi sul Trip-Hop, suonato in un modo molto vicino ad un suono anni ‘90: per intenderci nel disco ritroviamo facilmente i Massive Attack, le chiavi jazz e le magliette nonsense.
Tutto il suono però è poco fosforescente o intuitivo, rimane una semplice e oscura carezza tra un basso sempre piuttosto energico e una voce magnetica.
Il disco è un album di suspense, costruito probabilmente con grande sapienza e attenzione, con una benedizione sonora che proviene indicativamente dal sound di Brian Eno. La bellezza, anche dei conflitti personali, mondiali e musicali, non salta sempre all’orecchio, ma questo non basta per giudicare negativamente l’ennesima buona prova di Ghostpoet.
Smetterla con commercializzare i sentimenti, far capire che i rifugiati non vanno in giro per il mondo per puro interesse personale e altre disperazioni umane sono il mantra dell’album, che forse meritava una dimensione nei testi più definita.
Obaro Ejimiwe si è un attimo seduto, ma da quel gradino dove lo immagino, sulla rampa di un palazzo londinese, fa comunque il suo buon lavoro: dietro di lui c’è un tramonto meraviglioso e incandescente che per forza di cose illumina anche questo disco e, in un certo senso, lo conserva da ogni attacco.
67/100
(Gianluigi Marsibilio)