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L’appuntamento mensile con un contenuto di Mangiatori di Cervello, per approfondire qualcosa di “altro” rispetto ai “soliti” contenuti kalporziani con lo stile e la visuale inconfondibile di MdC.
Ci sono storie che non si possono raccontare, perché sono così belle da volerle difendere dalle illusioni, dai telegiornali, dal vociare del tempo che fa l’occhiolino alla realtà. Poi, invece, ci sono storie che quella stessa realtà la riempiono con la forza di un’idea, che superano la diffidenza popolare e tutte quelle convinzioni che in realtà comuni non lo sono affatto.
La guerra ci inorridisce, il dolore ci piega le gambe e riempie gli occhi di tenerezza e solidarietà. Eppure ci rifiutiamo di accettare che il nostro mondo faccia parte del resto del mondo stesso. Sentiamo le cose in maniera direttamente proporzionale allo spazio fisico che ce ne separa, come se esprimere un parere non fosse un’opzione ma un dovere irrinunciabile: è la linea che divide le considerazioni dalle sentenze, la realtà dalle proiezioni, l’ignoranza dall’odio.
Lo ha capito bene Selene Biffi, l’imprenditrice italiana che ha creato Loudemy, chatbot contro l’hate speechsui social network. Abbiamo scambiato due chiacchiere con la nota imprenditrice di Mezzago: classe 1982,startupper, consulente ONU e dal 2009 Young Global Leader al World Economic Forum.
Quello tra odio e viralità è un binomio sempre più riconosciuto. Esiste un approccio socio-culturale in grado di contrastarlo?
L’approccio socio-culturale in grado di contrastarlo si chiama conoscenza e credo sia l’unico in grado di fornire una risposta adeguata a questo tipo di problema. Le critiche, le prese di posizione nette e le discussioni animate non sono un problema, ma lo diventano quando quello che traspare sono insulti sulla base di caratteristiche individuali come la provenienza, l’orientamento politico, la religione o il genere. Trovo, dunque, che proporre un’informazione di base corretta sia un primo passo per avere un dialogo aperto a più punti di vista, ma non posso negare che la cosa richieda uno sforzo di tutte le parti coinvolte.
Dalla macchina all’uomo: ci racconti Loudemy?
L’idea di Loudemy è nata l’anno scorso in Afghanistan, un Paese dove quattro anni fa ho lanciato la Qessa Academy, una scuola tecnica che utilizza lo storytelling per trasmettere messaggi pratici di sviluppo locale. A luglio 2016 ci fu un grave attentato – il peggiore, in termini di morti e feriti mai registrato dal 2001 – e quel giorno passai parecchie ore sui social e online assistendo a commenti pieni di odio, reazioni inconsulte, falsità di ogni tipo sull’Afghanistan, sulla situazione in cui versava e sulla guerra che interessava il paese. Cominciai a rispondere a tutti quelli che potevo, provando a far capire la complessità di un contesto come quello afgano, ma non potevo ovviamente stare dietro a tutti i commenti: da qui l’idea poter automatizzare la cosa.
Loudemy permette agli utenti di contribuire alle conversazioni online su argomenti di loro interesse anche quando non sono di fronte ad uno schermo. I chatbot di Loudemy vengono attivati ogni volta che incontrano parole e concetti negativi, notizie infondate e intolleranza, attraverso un’analisi del testo della conversazione e l’intenzione. I chatbot intervengono poi in automatico postando commenti con dati e informazioni utili a stemperare i toni e creare dialogo su un vasto numero di argomenti attuali, dai diritti umani al cambiamento climatico, dalla politica alla tolleranza religiosa, e molti altri ancora.
A differenza di quanto si trova già online, Loudemy non blocca gli utenti, non segnala contenuti inappropriati e non cancella i commenti di altri, ma offre invece informazioni alternative e nuove prospettive attraverso testi scritti, file audio, immagini e video. E’ sufficiente registrarsi su Loudemy, scegliere gli argomenti che più stanno a cuore, selezionare le fonti che che i chatbot utilizzeranno – organizzazioni internazionali, istituti di ricerca, istituzioni di vario tipo – e collegare Loudemy ai social. Il nostro algoritmo si occupa poi del resto, permettendo agli utenti di contribuire a conversazioni online su social quali Facebook, Twitter, Instagram e Youtube, per iniziare.
Dall’Italia al mondo: qual è stata la sfida più grande?
Difficile scegliere: non ho mai lavorato su progetti facili o di comodo, ma ho sempre cercato di porre l’asticella un pochino più avanti, cercando di creare progetti che potessero aprire più possibilità di quante ne proponevano quelli attuali, in un’ottica di innovazione sociale. Credo comunque che la sfida più grande affrontata al momento sia stata quella di aprire una scuola a Kabul per il recupero del patrimonio orale, dove si insegna a ragazzi e ragazze disoccupate tra i 18 e i 25 anni a imparare le storie delle tradizione (epica, folklore, mitologia etc) e a scriverne di nuove per parlare di tematiche quali salute pubblica, sicurezza alimentare o diritti umani nell’Islam. In un Paese dove, dopo quasi 40 anni di guerra, 8 persone su 10 non sanno leggere o scrivere, l’oralità diventa uno strumento prezioso per fare formazione.
Perché, secondo lei, in Italia le startup trovano un terreno così poco fertile?
Credo che le motivazioni siano molteplici ma si può partire dicendo che, al momento, manca un ecosistema forte vero e proprio. Da un lato ci sono idee, voglia di fare e, spesso, giovani che vorrebbero tentare un’avventura imprenditoriale perché non trovano sbocchi lavorativi adeguati alla loro preparazione o alle loro aspettative. Dall’altro però si scontrano con la mancanza di accesso ai finanziamenti, la presenza di partner forti e, diciamolo, l’assenza di un sistema meritocratico che dovrebbe garantire un mercato sano.
Selene, ha ancora sogni nel suo cassetto?
Certo! In primis vorrei portare a termine il progetto che inizio a breve a Mogadiscio, dove l’ONU mi ha chiesto di formare imprenditori sociali e aprire un incubatore per startup sociali a supporto di quanti vogliano aprire una micro-impresa con forti ricadute sociali o ambientali. Continua ovviamente anche il mio impegno con Plain Ink e la scuola di Kabul, e Loudemy ovviamente. In futuro, mi piacerebbe lanciare una app di apprendimento linguistico, tra le varie cose.
a cura di www.mangiatoridicervello.com
Mangiatori di Cervello è una via di mezzo tra un collettivo delle conoscenze ed un magazine dove si condividono attualità, approfondimenti culturali, opinioni.
Le ragioni della collaborazione tra Kalporz e MdC puoi leggerle qui.