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Basta il primo ascolto per comprendere la cura maniacale dietro la nascita di un album così monumentale, stratificato e complesso seppure fruibile come è “Planetarium”. Ma c’è ancora di più: si tratta di un progetto mastodontico, messo insieme da artisti di una caratura notevole di cui la maggior parte dei lettori di Kalporz conosceranno, senza bisogno di googlare, Sufjan Stevens e il chitarrista dei National, Bryce Dessner. Basti pensare che nel periodo di tempo che va dall’ideazione del progetto (2011) al prodotto finito, Sufjan Stevens ha composto e registrato il bellissimo “Carrie & Lowell” (portandosi dietro in tour McAlister), mentre Dessner ha firmato la colonna sonora di “The Revenant” e “Trouble Will Find Me” con i National, e Muhly una serie di composizioni sinfoniche. In effetti fu proprio a Muhly che la Muziekgebouw Eindhoven concert hall commissionò una nuova opera; lui coinvolse subito i suoi amici Bryce e Sufjan in questo progetto sul sistema solare, e Sufjan a sua volta ingaggiò il suo collaboratore McAlister. I ruoli sono presto detti: Muhly è quello che ha più esperienza di musica sinfonica, ma la composizione è stata soprattutto opera di Dessner a cui si sono aggiunti i testi “filosofici” di Stevens e le ritmiche e parti elettroniche di McAlister. Nel 2012 e 2013 l’opera complessiva fu rappresentata in una serie di concerti, non molti a dir la verità, tra Amsterdam, Londra, Sydney, Parigi e Brooklyn, poi la stessa fu messa in soffitta per poi essere ripresa e rilavorata in studio di registrazione per aggiunte ma soprattutto sottrazioni.
Quello che è stato inciso ed è finito in “Planetarium” è dunque un composto di stratificazioni che però assume una sintesi piuttosto mirabile seppure nella diversità di stili, che per semplificazione potremmo suddividere in quattro tipologie: pop, ambientale, orchestrale ed elettronico. Alcuni brani sono caratterizzati da una sensibilità particolare più che dalle altre tre, come nelle melodie più propriamente pop e nello “stile-National” di brani come “Neptune” e “Mercury”, oppure negli intermezzi d’ambiente (“Halley’s Comet”, “Black Energy”, “Black Hole”) o in pezzi tendenzialmente sinfonici (“Sun”, “Pluto”) od elettronici (“Uranus”, “Moon”), mentre in altri i quattro sono riusciti a ritrovare un’equilibrio simbiotico quasi perfetto (“Venus”, “Jupiter”). Un campionato a parte è invece da riservare a “Saturn”, singolo meraviglioso di pulsazioni e tendenze trance che si propone come una delle migliori canzoni dell’anno, da riascoltare più e più volte nel suo essere esteticamente perfetta come l’immagine che abbiamo del “pianeta con gli anelli”.
A livello testuale, com’è evidente, “Planetarium” è un concept sul sistema solare, ma non pensiate che sia unicamente un’opera di fantascienza. In realtà Sufjan si è approcciato alle liriche in maniera mista tra il filosofico e il trascendente, e il viaggio nello spazio si è trasformato in un cammino alla ricerca del luogo di provenienza dell’uomo, e per questa via del perché dell’uomo. Insomma, la traversata interstellare che si tramuta in ricerca introspettiva nell’umana condizione. Non a caso l’iniziale “Neptune” parte con un dubbio eterno, semplice ed amletico al tempo stesso: “What’s right and what’s wrong?”. E trova risposte Sufjan lungo il percorso? Parrebbe proprio di no se nella conclusiva “Mercury” lo stesso si chiede:
“Friend, where do you run?”
Parafrasando qualcuno, la risposta non soffia nel vento, piuttosto risiede nelle stelle.
79/100
(Paolo Bardelli)